Come ho incastrato Robert Schneider

Questa storia inizia in modo banale: un giorno una mia amica mi regala un libro ed io lo leggo. Eppure continua in un modo che, nella sua apparente banalità, ha radicalmente cambiato la mia prospettiva sull’idea stessa di letteratura. Ed è per questo che ve la racconto.

Innanzitutto c’è da dire che l’amica in questione non era un’amica a caso, ma un’amica che mi conosceva molto bene. Non nei fatti, perché la proverbiale riservatezza della mia giovinezza non risparmiava nessuno, ma di sicuro sapeva entrare in sintonia con la mia mente. Lucia, questo è il suo nome, mi regalò quel libro senza nessun motivo apparente, ma solo perché sapeva che mi avrebbe parlato. E poi c’è anche da dire che io non lessi il libro subito. Stavo finendo i miei esami all’università in quel periodo ed ero molto concentrata su questo, quindi lo lessi molto tempo dopo, quando la fine degli esami mi aveva letteralmente svuotata. In un momento di grande stanchezza fisica, ma anche grande appetito mentale. Avevo divorato talmente tanti libri in quei mesi che mi sentivo satura, ma contemporaneamente vuota e affamata. Non riuscivo a smettere di leggere.

Una volta affrontata, la lettura del libro che mi aveva regalato Lucia, mi folgorò letteralmente. Non per la storia. Né per le ambientazioni, ma per il suo spirito. Quel libro, in molti tratti, parlava al posto mio. La voce di Elias, il protagonista, era stata molto spesso la mia.  Ma non solo la sua. Perfino la voce della sua musica, era stata spesso mia. Era strano. Il libro non mi piacque in senso letterale, ma mi turbò moltissimo. Non riuscii subito a capirne il motivo. Vorrei provare a spiegarlo ma non è facile. Era come se, tra le righe, tra le pagine, tra un capitolo e l’altro, nelle pause di contenuto, il testo sprigionasse un’energia che toccava in modo conturbante le mie corde interiori che non sapevo controllare. Non so se vi sia mai capitato. Di essere attratti da qualcosa che non ha concretezza e di non sapere perché. Era esattamente quello che provai.

L’autore del libro era Robert Schneider; il titolo: “Le voci del mondo”.

Non so quindi che mi prese. Cominciai ad ordinare tutto ciò che questo giovane autore austriaco avesse pubblicato fino a quel momento. Era il 2000. Divorai quello che c’era in italiano. La sensazione che lui sapesse far parlare il mio lato oscuro non mi abbandonava. Ero sempre almeno nella testa di uno o due personaggi di qualsiasi sua storia. Le più torbide per lo più. Incredibile. Non mi era mai capitato prima. Sebbene ci siano degli scrittori verso i quali nutro l’impressione che sappiano leggermi nel pensiero – credo che sia una sensazione che abbiamo tutti – con Schneider la cosa era diversa. Condividevamo qualcosa. Per forza. Forse proprio quel lato oscuro? Dovevo saperlo.

Col tempo, questa cosa divenne un mio chiodo fisso.

Robert era un autore strano. “Le voci del mondo”, il suo libro di esordio, lo mise di fronte ad un successo planetario. Tradotto in 24 lingue, il testo divenne un caso mondiale subito, cosa che lo consegnò ai media in modo improvviso. Come ogni giovane autore alle prese con un’esposizione inaspettata, il successo lo annebbiò, gli regalò una bella vita, ma fu al tempo stesso la sua rovina. Il mondo, infatti, mentre lui si divertiva a raccogliere i frutti del suo successo, era in attesa del secondo romanzo – “Le voci del mondo” è parte di una Trilogia, la famosa Trilogia del Reno – che arrivò qualche anno dopo.

Ma il mondo ne rimase profondamente deluso. Il suo secondo romanzo fu un flop clamoroso (da diversi anni in Italia neanche si ristampa più). “Maudi che camminava sull’aria”, questo il titolo del libro, era molto diverso dalla sua prima pubblicazione e il pubblico lo denigrò ferocemente (inutile dire che a me piacque ancor più del primo). Robert cadde in depressione: entrò in una spirale negativa che lo convinse a non esporsi mai più ai media. Continuò a scrivere, sì, ma lontano dai riflettori. Quando lessi “Le voci del mondo”, Schneider aveva da poco pubblicato in Italia anche il suo terzo romanzo, che però ebbe ancora recensioni molto controverse. Quindi la sua decisione di rimanere nell’ombra era diventata una scelta definitiva. Robert era diventato praticamente uno sconosciuto ai media. Aveva deciso di tornare a vivere nel paese che l’aveva visto crescere, un paesino sperduto tra le montagne austriache di meno di 100 anime, e aveva deciso di dedicarsi completamente alla scrittura fregandosene di come sarebbe stato accolto dalla critica. Continuai a seguirlo da lontano, ma l’attesa di suoi nuovi scritti senza nessuna informazione, mi poneva in una situazione di strano disagio; quello sfrenato e irrazionale bisogno di nutrirmi dei suoi personaggi cresceva ogni giorno di più in me.

Ad un certo punto mi fu chiaro. Dovevo cercare di capire. Ho sempre provato un profondo imbarazzo nei confronti delle cose che non riesco a spiegare. Dovevo incontrarlo. Io ci dovevo parlare.  Dovevo farlo per me. Per dare un nome a ciò che sentivo e per capire dove mi avrebbe portato. Ma come?

Chi mi conosce sa che la pazienza è una delle mie più grandi doti. Quindi mi presi il mio tempo per riflettere, elaborare una strategia ed aspettai. Aspettai anni. Finché un giorno…

Finché un giorno ottenni un assegno di ricerca in letteratura tedesca all’Università di Macerata.  Era il 2005. Grazie ad una capacità tipicamente femminile di mixare concetti apparentemente non connessi, con delle spiegazioni furbescamente connettibili, riuscii ad infilare la letteratura austriaca nella ricerca e mi guadagnai il permesso della facoltà di inserire una missione in progetto: intervistare Robert Schneider, pagata.

Bingo!

Ora però veniva il difficile. Come trovare Robert??? All’epoca intanto non c’erano i social e anche se ci fossero stati lui non ci si sarebbe iscritto, e poi non c’erano smartphone pronti a geolocalizzare ogni angolo della Terra. Questo paesino austriaco sembrava impervio e inaccessibile, e sconosciuto alla rete. Ovviamente la decisione di Robert di scomparire dai media, che in quei 5 anni aveva rafforzato, comportava il fatto che il suo nome non comparisse in nessun elenco telefonico o evento pubblico.

Mi armai di altra pazienza e decisi di procedere per tentativi.

Primo tentativo. Conoscevo bene il tedesco, quindi, mi attaccai al telefono. Cominciai a chiamare a caso gli abitati di Bregenz (il paesino austriaco di 100 anime in questione) cercando di ottenere informazioni sul loro compaesano. Invano. Ottenni molti insulti e anche qualche minaccia di denuncia. Niente di più. E come biasimarli? Immaginatevi una giovane voce femminile che vi chiede informazioni su un uomo per incontrarlo. Una stalker praticamente.  Come spiegare che ero ossessionata dai libri di R obert e non da Robert in quanto uomo (di cui, tra l’altro, avevo visto solo una foto in rete di circa 10 anni prima)? Non facile…

Secondo tentativo. Sempre perché conoscevo bene il tedesco decisi di smettere di chiamare a caso, ma di focalizzarmi su un obiettivo più sicuro: la biblioteca del paese. Può uno scrittore essere sconosciuto in biblioteca? No. Infatti lui non lo era. Ma sempre che per una stalker passavo. Hai voglia a dire: sono una ricercatrice, avrei bisogno di parlare con lui per, sa, la mia ricerca, sarebbe importante, arricchirebbe il panorama di conoscenza di… Va beh, non mi credeva nessuno. Secondo tentativo, fallito peggio del primo.

Non sapevo proprio come sciogliere il nodo del contatto. Nella disperazione, provai a ragionare come la donna per cui passavo: una vera stalker, e misi in atto un piano che mai avrei creduto di poter pensare: sedurre il postino del paese. Ero davvero determinata nel mio obiettivo (e chi mi conosce sa cosa questo possa significare…), quindi non esitai. Farsi passare al telefono il postino dall’ufficio postale era di certo più semplice che farsi passare un privato cittadino. Mi bastò dire che volevo sapere che fine avesse fatto un pacco spedito dall’Italia e mai recapitato. Il caso e la fortuna vollero che il postino fosse un uomo. Giovane. E non austriaco, perciò malleabile. Ci misi un po’ per lavorarmelo. Dovetti richiamarlo più di una volta, ma alla fine ottenni un compromesso. Non mi avrebbe fornito nessun dato personale su Robert, non poteva certo rischiare il posto per me, ma gli avrebbe recapitato un mio messaggio, che pensai con cura e gli spedii per mail il giorno dopo.

Avevo impiegato quasi tre mesi per completare la fase due del mio piano, ma non ero andata niente male direi.

Eppure la storia non finiva qui. Avevo studiato bene quel messaggio, dosato ogni parola affinché Robert capisse che il mio desiderio era legato alla sua produzione letteraria che speravo di aver dimostrato di conoscere bene, ma non potevo immaginare come l’avrebbe presa. Sul fatto che il postino avrebbe fatto il suo dovere, ero quasi certa. Era stato davvero affabile con me (tanto che continuò a scrivermi a lungo, ma questa è un’altra storia…). Ma sul fatto che avessi ottenuto qualcosa, molto meno.

Passarono tre mesi, prima che qualcuno si facesse vivo. Mesi in cui avevo già messo in conto di dover cambiare missione per il mio progetto e dover rifare da capo tutto il lavoro. Immaginate la rabbia. Ma, tre mesi dopo, qualcuno si fece vivo.

Ricevetti una mail da un indirizzo generico con un sintetico “R.S.” nel soggetto. Il corpo della mail faceva riferimento al messaggio di Klaus il postino. L’autore si scusava di non avermi risposto prima, che però ci aveva pensato a lungo e che, sì, se volevo ci potevamo incontrare. In calce alla mail l’autore lasciò un indirizzo ed un numero di telefono.

Sbam!

Sebbene all’epoca avessi già 28 anni (tra una cosa e l’altra eravamo giunti al 2006 nel frattempo) e non ero di certo più una ragazzina, feci esattamente tutto il contrario di ciò che il senso comune mi avrebbe dovuto spingere a fare, da adulta, tipo: informarmi su quell’indirizzo, verificare il numero di telefono, cercare di individuare da chi partisse veramente quella mail dall’indirizzo anonimo, chiedermi, ad esempio, se non ci fosse Klaus dietro a tutto questo a tendermi un’imboscata. Pensare all’ovvio praticamente. Assolutamente no. Ciò che feci, al contrario fu: rispondere di getto, saltare di gioia, correre all’agenzia di viaggio e cercare di capire come arrivare a Bregenz nel modo più rapido possibile.

Per fortuna, nonostante la proverbiale riservatezza della mia giovinezza, avevo condiviso la mia passione per le storie di Robert con il mio fidanzato storico. Non eravamo in buoni rapporti in quel momento, stava già diventando il mio ex fidanzato storico a dire il vero, ma ero davvero troppo felice per questa opportunità, che lo chiamai lo stesso. Lui, che sapeva come prendermi, che sapeva, cioè, che se avesse provato a farmi vedere i lati negativi della faccenda, avrei tentato di imbonirlo finendo col confonderlo, fece finta di essere contento per me e poi, di nascosto, fece le uniche cose sensata da fare. Si informò al mio posto su quei dati, rimase dubbioso, ma quando capì che niente mi avrebbe fatto cambiare idea, trovò il modo di scoprire quando e come sarei partita, si imbucò nel treno e prenotò una stanza accanto alla mia appena ebbe conferma della pensione in cui alloggiavo. Stavo davvero agendo da sprovveduta senza rendermene conto. Ma lui cercò di garantirmi la sicurezza necessaria. E alla fine lo fece fino in fondo. Forse non gli ho mai detto grazie abbastanza per questo.

Ma tornando alla posta, dopo uno scambio di mail con il mio alter ego virtuale, durato circa un paio di settimane, finalmente presi un appuntamento reale per il mese successivo. Prenotai una stanza nella pensione più vicina all’indirizzo che mi era stato scritto, organizzai il viaggio, e partii.

Il viaggio fu lunghissimo. Attraversai tutta l’Italia e l’Austria in treno per un giorno intero. Ricordo che solo grazie al movimento fisico del mio corpo cominciai a realizzare quanto fosse assurdo tutto ciò che stavo facendo. Ma ero combattuta in modo disarmante. Da un lato volevo avere di fronte l’uomo che riusciva a turbarmi con le sue storie per tempestarlo di domande, dall’altro ero dilaniata dal dubbio di starmi esponendo a un rischio inutile o peggio ad una delusione scottante.  Bregenz mi sembrava un paese ai confini: del mondo e del mio sentire.

Arrivai alla stazione di Bregenz alle 11 di sera. Era inverno, c’era la neve e il posto era davvero desolante. Non c’erano taxi, non c’erano mezzi disponibili nelle vicinanze. Presi in mano il biglietto con l’indirizzo della pensione che dovevo raggiungere senza sapere esattamente cosa fare. Fu in quel momento che vidi il mio fidanzato storico, che nel frattempo era diventato un mio ex, che aveva viaggiato nel vagone accanto al mio senza che lo sapessi. Mi strappò il biglietto dalle mani e mi disse: “Ho prenotato un taxi prima di partire. Sarà qui fra 5 minuti. Ti prendo la borsa”. Mi sorrise. Sorrisi anche io.

L’appuntamento con Robert, o almeno colui che io pensavo fosse Robert, era per il giorno dopo alle 14 davanti alla pensione. Alle 13e30 ero già in strada, a fissare tutte le persone che si fermavano, cercando di capire chi poteva essere lui. Perché, a dirla tutta, non avevo nessuna idea di come fosse fatto. Le foto che comparivano in rete lo ritraevano molto giovane e risalivano a molti anni prima. Quindi, se era un uomo, con l’aria di cercare qualcuno e dimostrava circa 45 anni, Robert poteva essere praticamente chiunque. E davanti a quella pensione si fermavano davvero un sacco di uomini dalle facce vagamente smarrite. A un certo punto vidi un uomo che si guardava attorno con uno sguardo spento e un po’ ebete, come se stesse cercando qualcuno o meglio se stesso. Era  vestito in modo trasandato, con la barba incolta e con un riporto in testa piuttosto imbarazzante. Ebbi paura e pensai: se si gira verso di me e prova a fissarmi, scappo. Che diavolo stavo facendo lì?? Lui entrò nella pensione e poi ne uscì a capo chino, facendo attenzione a tenere ben chiuso il giubbotto sotto al quale era evidente che avesse infilato qualcosa. Che diavolo stavo facendo lì??

Mentre lo guardavo andare via e continuavo a domandarmi come avessi potuto essere così ingenua, mi accorsi che stava venendo verso di me un uomo in giacca, dall’aspetto gentile. Con un sorriso molto discreto mi guardava tenendo in mano un libro di cui non riuscii a leggere né il titolo né l’autore. Senza avvicinarsi troppo, lo allungò davanti a sé e disse: “Bist du Gianna?” (Sei tu Gianna?)

“Ja”. (Sì)
“Ich bin Robert. Ich freue mich dich kennenzulernen. Danke, dass du gekommen bist. Ich habe ein Geschenk für dich. Ich hoffe es gefällt dir”.
(Sono Robert, piacere di conoscerti. Grazie per essere venuta. Ho un regalo per te. Spero che ti piaccia).

Scoprii dopo che si trattava di un suo testo inedito. Un libro che aveva scritto tanto tempo prima, ma che aveva deciso di non pubblicare, perché era sicuro che nessuno l’avrebbe capito.

Da questo momento in poi potrei raccontarvi molte cose. Del fatto, per esempio, che mentre io passavo un pomeriggio memorabile con Robert, il mio ex aveva scoperto a sue spese che alloggiavamo in una pensione che era una copertura per lo spaccio di qualsiasi cosa (ecco perché non ci avevano chiesto i documenti… ), o del fatto che, al contrario di Robert, che mi sorprese con un regalo che è ancora il pezzo a cui sono più affezionata nella mia biblioteca, io avevo scelto di omaggiarlo con dei noti superalcolici della mia Regione senza sapere che fosse completamente astemio. Potrei, perché quel viaggio e le persone che incontrai nel mezzo furono del tutto surreali, ma non ha senso che lo faccia. Perché l’unica cosa che contava per me all’epoca era capire cosa sintonizzasse la mia mente con la mente dello scrittore. Era una cosa che pensavo valesse la pena scoprire e vivere, a prescindere da tutto, e scoprii che fondamentale lo era davvero, visto che quell’incontro cambiò il mio punto di vista su molte cose.

Nella giornata che trascorsi con Schneider, scoprii che lui ed io avevamo davvero familiarità con lo stesso lato oscuro della vita. Una oscurità tanto forte quanto attraente. Parlarne con lui ed ascoltarlo, mi aprì gli occhi. Lui aveva deciso di accoglierla rendendola viva, esorcizzandola con dei volti e delle storie da manipolare. Ora capivo perché fossi così attratta dai fili che muovevano i personaggi delle sue storie. E’ così che si scelgono i propri simboli e le proprie sfide. Avevo capito che ciò che plasmiamo con la nostra fantasia, oltre a creare interesse, sprigiona la forza necessaria a restituirci equilibrio. Io non ero equilibrata in quel momento della mia vita, ero al contrario profondamente irrequieta. Robert invece era del tutto centrato. Mi bastò guardarlo per capirlo. Ci intendemmo immediatamente. Lo invidiai, in modo buono, penso.

Da quel giorno, Robert Schneider iniziò a inviarmi ogni suo testo prima di sottoporlo al proprio editore. Parlavamo a lungo al telefono. Tra le righe dei suoi scritti. Il nostro legame, che è personale in modo impersonale, si consolidava grazie alle sue storie. Grazie a questo legame, ho dato un nome e un senso a molte mie pulsioni e sebbene il mio spirito indomito potrebbe portarmi a cercare a fondo di nuovo e sempre, grazie a tutti i suoi racconti, ho imparato cosa vale la pena esplorare.

Ed è così che una storia che è iniziata in modo banale è diventata una bella storia. Una storia che vive ancora oggi.

Racconto scritto per, e pubblicato da: Cronache letterarie il 4.11.2017

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