Quel footage che cambia la realtà. Una chiave per capire i nostri studenti?

In questi giorni mi è capitato, per caso, di seguire contemporaneamente una serie Netflix dedicata all’11 settembre “Turning point” e un documentario del 2019 sul massacro degli studenti avvenuto alla Stoneman Douglas High School in Florida il 14 febbraio del 2018, “The new normal”.

Da dove viene il footage?

I due eventi non sono certo paragonabili, tanto meno i due prodotti audiovisivi (una docuserie la prima, un film documentario il secondo), ma mi è sorta spontanea una riflessione da questo confronto. Ed è legata alla natura del footage a nostra disposizione, elemento chiave per la ricostruzione sia dei fatti, che del racconto audiovisivo degli stessi.

Sui cambiamenti che il linguaggio del documentario sta affrontando in questi decenni si è scritto molto, per non parlare della spettacolarizzazione delle immagini legate all’11 settembre, ciò che invece mi ha colpito in questo accostamento è stata una questione più antropologica, che mette in campo un discorso generazionale.

Turning point

L’11 settembre 2001 avevo 23 anni. Il telefono che avevo in tasca non era uno smartphone. Riuscivo a telefonare e mandare al massimo sms dai caratteri contingentati, quando la linea prendeva. La tecnologia non era così avanzata da permettere, ad ognuno di noi, di avere una telecamera integrata nel cellulare. Spesso neanche una fotocamera. Certo, io vivevo in una piccolissima città di provincia delle Marche, mentre qui tutto avviene a New York. Probabilmente la capitale mondiale delle telecomunicazioni. Ma le persone in strada difficilmente avrebbero potuto avere telefoni molto diversi dai miei.

Ovviamente, se anche nessuno aveva una telecamera in tasca, le troupe in giro di certo non mancavano. Quel giorno era prevista l’elezione del sindaco e una troupe di documentaristi stava riprendendo l’attività della caserma dei pompieri Ladder 1. Per questo abbiamo tantissimi video di quei terribili attimi degli attentati, ed in altissima qualità. Camere professionali, e professionisti alla camera.

Se fossi stata lì e avessi avuto uno smartphone in tasca, avrei girato dei video? Certamente sì, se mi fossi trovata a distanza di sicurezza. Sicuramente no, se avessi avuto la sfortuna di essere all’interno delle Torri.

The new normal

Il massacro di Parkland avviene in un’epoca molto diversa, e coinvolge direttamente studenti nati dopo il 2000, la cosiddetta generazione Z, nativi digitali. Tutti gli studenti della scuola hanno uno smartphone in tasca, fotocamera e telecamera incorporate e la cosa che mi colpisce è che, in un momento di totale panico, lo usano tutti. Pur trovandosi in una situazione di estremo pericolo, pur essendo a pochi metri dallo shooter, pur sentendo le urla dei compagni che cadono, accanto a loro, sotto i colpi dell’assassino. Li usano senza sosta. Inquadrano il pavimento mentre corrono, i banchi mentre sono nascosti, il soffitto mentre viene loro intimato di alzare le mani, i corpi dei loro compagni a terra mentre si urtano nei corridoi.

Cercare di salvarsi e documentare ciò che succede non sono due azioni distinte, gerarchiche. Documentare e condividere sui social la propria esperienza non sembra in nessun modo rallentare le loro reazioni, o aumentarne il rischio. Loro sono “nella Torre”, tornando metaforicamente a pensare all’11 settembre, eppure non si separano dal telefono acceso. Le immagini non sono molto definite, le inquadrature sono improvvisate, ma non importa. Stanno, a loro modo, chiedendo aiuto. Cercando di condividere il loro dolore, per diminuirne il peso.

Cosa dobbiamo imparare noi docenti

Questo abisso mentale che separa la mia generazione dalla loro, mi fa inevitabilmente pensare al mio ruolo di docente, visto che i miei studenti hanno in media tra i 19 e i 21 anni e sono nati, quindi, tutti dopo il 2000. Penso al mio ruolo perché questo atteggiamento nei conforti della documentazione della realtà porta inevitabilmente noi e loro a vivere in mondi percepiti in modo molto diversi.  Con la conseguenza che questo, di mondo, quello che stiamo vivendo attualmente, sia, secondo me, molto più vicino alla loro percezione che alla mia. E questo mi fa pensare se non sia veramente giunto il momento di far stabilire proprio a loro i temi di ricerca delle nostre prossime pubblicazioni, piuttosto che il contrario. E costringere loro a leggerci senza troppo interesse.

Che il vero cambiamento si nasconda davvero in tutte quelle immagini verticali girate di corsa dal basso?

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