De li cunti, lo cunto. Cosa Garrone cerca, ma non trova.

garrone

 

E’ un fastidio, la coscienza.

Molto meglio farne senza.

Cos’è il male, cosa il bene?

Indagare non conviene,

ma conviene ricordare

solo quello che ci pare:

è un impiccio, la memoria.

Basta. Fine della storia.

E giustizia trionfò…

o forse no?

Croce definì “Lo cunto de li cunti”, un classico della tradizione letteraria napoletana, «il più antico, il più ricco e il più artistico fra tutti i libri di fiabe popolari». L’autore, il letterato cortigiano Giovan Battista Basile, lo compose nei primi decenni del ‘600 senza preoccuparsi della sua pubblicazione. L’opera era infatti destinata alla lettura di gruppo, alla recitazione, alla «conversazione» cortigiana. Durante la loro narrazione gli ascoltatori interloquivano, il narratore interagiva con il pubblico rispondendo alle osservazioni e prendendo nota delle varianti più fortunate delle singole storie. Il testo altro non era che un canovaccio, a partire dal quale l’autore ricamava espedienti talvolta per mantenere alto il livello di attenzione, altre volte per distrarre gli ascoltatori, in generale per offrire un ritmo al tempo dedicato ai divertimenti di corte. Un canovaccio da usare, trasformare, rendere vivo ogni volta. Solo in base a queste premesse, si capisce perché l’opera sia lo cunto de li cunti, il racconto che racconta altri racconti. Basile non descrive semplicemente storie, anzi, non descrive se non ciò che è già noto, ma allestisce un modello narrativo. Quello che accade nel primo racconto della raccolta accade nella forma dell’opera: tutti i racconti sono segmenti testuali del primo e ne replicano lo schema, che il lettore ritrova ripetuto altre 49 volte e, nello stesso tempo, continuamente interrotto in una suspence che si chiude soltanto alla fine. La formula è quella di un modello generativo con cui è possibile raccontare non soltanto tutti i racconti dell’opera ma anche altri innumerevoli racconti, come una macchina di articolazione del senso configurata come teatro della memoria (si veda in tal senso l’interpretazione illuminante di M.Rak).

Non so, sembra quasi che Garrone, immergendosi nella lettura delle singole storie de Lo Cunto, abbia tralasciato proprio le primissime righe in cui viene ricordato al pubblico che: “Chi cerca quello che non deve, trova quello che non vuole”.

Eppure queste storie, a partire dalla prima, quella di Tadeo e Zoza, il cui obiettivo era puramente d’intrattenimento, ed il cui senso era in qualche modo sperimentale dal punto di vista letterario, erano pur sempre fiabe. Racconti leggeri, dalla morale facile e a portata di tasca, pronti ad essere serviti in ogni salsa. Il tempo, non a caso, li ha trasformati in favole leggendarie (se n’è parlato a sufficienza ovunque), opere teatrali, racconti visionari, finchè un giorno tre di loro sono diventati un film. E qui, qualcosa di tutta questa costruzione, ahimè, si perde.

Grazie ad un cast artistico e tecnico di eccellenza, il Racconto dei Racconti di Garrone restituisce un immaginario visivo barocco di forte impatto estetico. Le ambientazioni, peraltro tutte italiane nonostante il film sia interamente girato in inglese, rappresentano la giusta cornice ed il giusto contenitore di un mondo fiabesco surreale ad alto contenuto visionario. Gli attori incarnano i loro ruoli in modo sublime e la ricerca degli effetti speciali non delude. Le storie sono solo ispirate ai racconti di Basile, ma, tenuto conto delle sue velleità letterarie (accennate sopra) di certo la mancata coerenza con il testo di partenza, non è il problema del film. Il problema è che manca proprio di coerenza strutturale interna. Perchè, cioè, trasformare le storie, che nascono per essere spettacolari, in un insieme di circostanze stupefacenti necessariamente in connessione fra loro? Perché esporsi necessariamente ai nessi? Forzati peraltro? In questo modo il brodo si allunga e se il brodo si allunga, noi spettatori siamo invitati a porci domande alle quali, se poi il regista non risponde, o risponde di fretta, ci rimane un certo sapore insipido in bocca alla fine. L’immaginario visivo è incantevole, ma davvero la chiave del successo è trasformare la complessità di archetipi modulari e privi di linearità narrativa per definizione, in un molto più semplice fantasy? Perché a questo, alla fine, il film cerca di somigliare. E questo non mi piace. Perché sarebbe stato più semplice, per far questo, lasciar riposare in pace il vecchio giullare Giovan Battista.

Rispondi