“Non pretendere molto. Non parlare troppo di sé” Lo strano caso di Janina Turek

janina turek

Qualche tempo fa ho assistito al Teatro India di Roma a Reality, spettacolo ideato di D.Deflorian e A.Tagliarini sul reportage pubblicato nel 2010 dal giornalista/scrittore Mariusz Szczygiel “Kaprysik. Damskie historie”. Lo spettacolo, per molti motivi, non mi è piaciuto, ma la storia rappresentata mi ha rapito, e, in parte, condizionato il sonno. Per questo ho comprato e letto l’intero reportage da cui era tratto, e per questo mi viene naturale mettere per iscritto dubbi e riflessioni, che mi sono sorti nel mentre.

Reality racconta la storia della casalinga polacca Janina Turek che, dall’età di 21 anni, fino alla morte avvenuta oltre 50 anni dopo,  trascorre la propria vita annotando ogni singolo fatto della sua quotidianità, oggettivamente e senza commenti. Circa 750 quaderni in cui si possono leggere esattamente il numero delle telefonate da lei fatte e ricevute, il numero degli sconosciuti incontrati, i regali fatti, le visite aspettate e inaspettate ricevute, i libri letti, i film visti al cinema, il numero di spettacoli a cui ha assistito a teatro, le notti passate fuori casa, i pasti consumati, ecc. 750 quaderni composti da lunghi elenchi di persone, cose, eventi banalmente accaduti ogni giorno della sua vita, come in un vero e proprio “assedio della quotidianità”. Ogni giorno allo stesso modo, fino alla mattina della sua morte. Tutto, ovviamente, in gran segreto, alla totale insaputa di ogni suo familiare.

Janina Turek
Janina Turek

Gli psicologi la chiamerebbero probabilmente nevrosi ossessiva, ma davvero possiamo definire nevrotica ogni pratica ricorsiva dalle caratteristiche non convenzionali? Era dunque ossessivamente nevrotico anche Monet che per 21 anni non fece che dipingere sempre e soltanto le sue ninfee? O era alla ricerca di qualcosa di meno scontato e più profondo? La figlia di Janina, Ewa, che ha scoperto i quaderni a casa della madre dopo la sua morte, racconta che all’età di 16 anni Janina teneva un diario in cui annotava i suoi pensieri più intimi. Il giorno in cui venne scoperto dalla madre e lei venne punita per la descrizione di quell’orgia tra amici (una danza su un tavolo probabilmente erroneamente definita), decise di smettere di consegnare alle parole le sue emozioni. Evidentemente, però, non poteva trattenere le parole, se ricomincia ad annotare cose, proprio il giorno in cui scopre che il marito è stato deportato ad Auschwitz.

Janina trascorre la vita a chiedere in giro nomi e informazioni su ogni futilità che la circonda per annotarla con precisione; si costringe a concentrarsi su ogni cosa su cui si imbatte, contro ogni logica naturale, che invece ci fa dimenticare il più delle cose che ci circondano per non intralciare i processi della memoria e del ricordo, così selettivi per spirito di sopravvivenza. Janina parla a se stessa facendosi rimbalzare gli avvenimenti addosso trasformandosi nel suo interlocutore: un interlocutore però piatto e neutro.  Attraverso i suoi elenchi, Janina castra ogni possibilità al sogno di generare visioni, accetta gli avvenimenti del suo paese facendo finta di fare altro, dimentica di essere rimasta sola da tanti anni. Tra le righe non intravvediamo i suoi pensieri, ma la pretesa di una solidità che ha senso solo interiormente. Un desiderio di integrità innaturale, eppure vitale.
Il contenuto della sua testimonianza è totalmente privo di interesse storico. Per questo nessuno ricorderà mai (forse giustamente) Janina.

Ma che posso farci? A me gli uomini che riescono a dare forma con grande tenacia e disciplina, coraggio e totale disinteresse alle proprie convinzioni,  hanno sempre affascinato così tanto…

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