Sulla lettura #0

lettura

Se c’è una cosa che mi ha insegnato il fatto di aver imparato precocemente a leggere – e come ho imparato a leggere è una bella storia che merita di essere raccontata a parte – è che la lettura è uno strano fenomeno. La sua stranezza non sta tanto in ciò che essa innesca. Tutti sappiamo cosa voglia dire farsi coinvolgere dal flusso delle parole di un testo, essere introdotti ad un viaggio, che, mentre prende forma, acquista autonomia e prende il sopravvento sulle parole stesse che si trasformano in semplici traghettatrici. Ma è uno strano fenomeno per ciò che essa lascia. Dopo che il viaggio è terminato. E siamo scesi da quel traghetto.

È strano perché ciò che rimane sono visioni spesso collegate alle diramazioni del viaggio che abbiamo appena intrapreso, più che al testo che abbiamo appena letto. Ed il bello è che non sono visioni astratte, ma prendono forme concrete materializzandosi come dei grandi contenitori.

Provo a spiegarmi meglio.

Immaginate il processo di lettura come un motore connesso a tanti ingranaggi collegati fra di loro. Una volta che gli ingranaggi sono attivati ruotano con delle velocità variabili. Più velocemente quando le parole scorrono sotto i nostri occhi e siamo impegnati a vivere il testo, più lentamente quando riposiamo gli occhi lontano dalle parole e il testo vive di riflesso in noi. Gli ingranaggi, una volta attivati, non smettono mai di ruotare. Girano e scavano, girano e scavano. Dentro di noi.

È qui la magia. Perché alle estremità di quegli ingranaggi che ruotano è come se ci fossero tanti grandi secchi che affondano nel pozzo di quel mix indistinto che è il mare della nostra coscienza/conoscenza e ad ogni giro tirano fuori qualcosa di diverso. A seconda di come è stata la corrente quel giorno, di come ci fa sentire il momento che stiamo vivendo. I secchi girando si riempiono e si svuotano. Cambiano contenuto e aspetto ogni volta. Si riempiono e si svuotano. Ogni volta da capo.

Chiaramente ogni avvio del motore è diverso. C’è molta differenza tra i testi che leggiamo. Un racconto è molto diverso da una raccolta di poesie, o da un saggio di varia natura. Ovvio. Ogni genere testuale tocca le nostre coscienze/conoscenze in modo diverso e colora con sfumature percettibilmente molto differenti quel mare ibrido da cui i secchi della memoria pescano.

I frammenti di mondo costruiti da una storia, per esempio, sono fatti di profumi e ambientazioni oltre che di individui, che lasciano in quel mare ibrido molte cose concrete da pescare. Caratteristiche specifiche di personaggi che sanno lasciare il segno; intrecci di profondo impatto che si materializzano in ricordi facili da rievocare. Diverso il caso della poesia, in cui spesso la litania dei versi ci abbandona, ma non ci abbandona il loro sapore.

A volte, gli ingranaggi ci riportano alla luce parti consistenti di ciò che abbiamo letto, scene di vita importanti che continuano a riaffacciarsi alla nostra mente mentre i fatti della nostra, di vita, ci sorprendono. Altre volte non riemergono che frasi. Parole. Solo sensazioni a volte. Soprattutto quando leggiamo dei saggi. Meglio se complessi.

Dunque, il fatto che la maggior parte delle connessioni suggerite dal testo vengano di fatto rimosse dalla nostra memoria, non vuol dire automaticamente che le abbiamo perse. Una volta che quelle connessioni si sono impiantate, maturano in sordina. Ma per riflettere abbiamo bisogno di ancore, di tracce. Che comunque il quel testo dobbiamo ritrovare.

Per questo sottolineiamo, annotiamo citazioni del testo qua e là. Perché proprio in quelle parti del testo più che in altre, noi crediamo. Cosicché quando andiamo a riaprire quel testo, SBAM, vediamo subito quelle frasi strillate e la nostra mente vaga.

Se ci sono testi che in assoluto si comportano così, questi sono di gran lunga i saggi filosofici. Quelli che leggi tutti d’un fiato la prima volta per provare a te stesso che ce la puoi fare ed auto-celebrarti un po’, ma che inizi a sottolineare solo rileggendoli una seconda volta. E che cominciano ad entrarti dentro solo la terza, quando le frasi che hai sottolineato FINALMENTE parlano di te. No, perché se un testo filosofico non parla mai di voi, né la prima, né la seconda, né la terza volta che lo prendete in mano, vuol dire che decisamente stando sbagliando mira.

Da questo punto di vista forse faceva meglio il buon vecchio Nietzsche che scriveva direttamente per punti. E chi s’è visto s’è visto. Ma al di là di questo.

Questo post era solo per dire che d’ora in poi, parte del mio blog sarà dedicato a quei sottolineati. In quei saggi. In quelle litanie. In quei frammenti di storie. E mi sembrava onesto spiegare ad alta voce cosa la legittimasse.

Al di là. Del bene e del male.

Of course.

Rispondi