La nostalgia verso il passato.
Quest’estate ho letto, un po’ per caso, un romanzo del bulgaro Georgi Gospodinov, dal titolo “Cronorifugio” uscito quest’anno. Uno dei protagonisti del romanzo inaugura a Zurigo una “clinica del passato” per malati di Alzheimer. Per aiutarli a vivere l’ultima parte della loro vita nel conforto dei propri ricordi, decide di trasformare la clinica in una specie di grande teatro, in cui ogni piano viene arredato e ricostruito come sarebbe stato nel passato. Stesso stile di vita, stessi costumi, stesse abitudini. In un piano finiscono i malati la cui memoria è rimasta bloccata negli anni 60 a godere della musica di quegli anni e di quel clima culturale, in un altro finiscono quelli più anziani che pensano di trovarsi negli anni 50 e così via. La clinica ha così grande successo che comincia ad essere richiesta, per brevi soggiorni, anche da persone perfettamente sane, ma che hanno nostalgia di un certo passato. Della clinica si parla a tal punto ovunque, da attirare l’attenzione della politica.
E se la soluzione alla totale incertezza di questi anni presenti verso il futuro fosse di tornare a vivere nel passato? E così l’Europa viene investita da un’ondata di nostalgia. Viene indetto un referendum in ogni paese dell’Unione per stabilire, dall’approvazione del piano in poi, da quale anno ricominciare tutti a vivere in quello specifico Paese. Sebbene la logica ci dica che ogni Paese dovrebbe voler tornare a rivivere i suoi momenti di più grande benessere sociale, forza economica e politica, questo non sempre avviene una volta al voto. Alcuni Paesi scelgono infatti di tornare alla seconda guerra mondiale, o agli anni di privazione della libertà da parte dei totalitarismi. La grande domanda nascosta nel testo , di finzione totale ovviamente, pare essere proprio questa: cosa spinge uomini ormai liberi, i cui diritti umani sono pienamente (o quasi) riconosciuti, a voler rivivere gli anni più bui del secolo passato?
Dau Natasha
Quando ieri ho visto Dau – Natasha, una delle parti di cui si compone il progetto russo DAU e che sta cominciando ad essere proiettato al cinema in Italia, mi è tornata in mente la stessa domanda.
Il progetto.
Dau è un progetto titanico e parzialmente deviante, del regista russo Ilya Khrzhanovskiy. L’idea è di ricostruire nei minimi dettagli dell’URSS degli anni 30 in poi, farci vivere un centinaio di persone per un periodo di tempo, osservarle e filmarle come in laboratorio. Khrzhanovskiy descrive così il progetto: “The first cinematic project about isolation, filmed in isolation, for people in isolation”. Pensato inizialmente come lungometraggio, Dau comincia ad essere girato nel 2007, ma presto si trasforma in qualcosa di diverso. Nel settembre 2009 viene costruito un “Istituto di ricerca in fisica e tecnologia” all’interno di una piscina abbandonata a Kharkiv (Ucraina). La struttura si ispira a veri istituti sovietici, in particolare a quello diretto dallo scienziato sovietico Lev Landau (detto Dau appunto), premio Nobel per la fisica nel 1962, la cui vita eccentrica e libertina è un punto centrale nello sviluppo dell’idea.
La struttura diventa, piano piano, il più grande set cinematografico mai costruito in Europa. E Khrzhanovskiy, che fino a quel momento ha in attivo un solo film, si trasforma nell’artista più discusso del mondo. Il progetto finirà col combinare film, scienza, performance, spiritualità, sperimentazione sociale e artistica, letteratura e architettura. Le sue diverse manifestazioni (come una grande mostra a Parigi ad inizio 2019) hanno visto la partecipazione di personalità riconosciute in ambito internazionale, come Marina Abramovic, o Brian Eno.
Cosa succede nell’Istituto.
Nel centro ricostruito lavorano veri scienziati assieme a volontari selezionati per recitare la loro parte, tra cui ex guardie del KGB, artisti, camerieri, ecc. Tutte persone che abbandonano, per tre anni, la loro vita quotidiana per tornare indietro nel tempo.
Privati delle loro libertà personali, perennemente controllati da agenti del KGB (tra cui veri ex agenti), tutti i partecipanti all’esperimento artistico finiscono per rimanere invischiati in logiche di violenza che tendono a perpetrare ognuno nel proprio microcosmo. Natasha, la protagonista delle due ore di girato disponibili al cinema, gestisce la mensa all’interno dell’istituto. In una delle tante cene alcoliche tra scienziati – l’alcol è una delle variabili che il regista usa con i suoi attori per liberare i loro istinti -, decide di avere un rapporto sessuale con uno scienziato francese. Viene scoperta. Interrogata, torturata e stuprata (con una bottiglia) da un agente del KGB. Tutto mostrato senza filtri.
Ma Natasha non è, né si sente una vittima. Tanto che non si esime dal tentare di sedurre l’agente subito dopo aver subito le sue violenza. Agisce come parte perfettamente calzante di quel mondo, che pure non è il suo, ma sta recitando in modo improvvisato. Inoltre, ostenta una crudeltà simile nei confronti della sua collaboratrice Olga. Umiliata e picchiata più volte da lei e dai commensali. Lo stesso regista viene accusato più volte di esercitare violenza nei confronti dei suoi attori durante le riprese, sebbene la voce non sia confermata.
Domande e risposte.
Nell’istituto, scelto volontariamente come alternativa temporanea alla realtà del presente, è come se ognuno fosse avvolto in un sistema di matrioske. Ogni microcosmo è identico e il totalitarismo regna ovunque. Nessuno lo subisce. Tutti sembrano cavalcarlo.
Qualcuno ha scritto che si tratta di una esperienza a metà tra The Truman Show e Good Bye Lenin. Io ritengo che avvicinare questo footage (700 ore che diventano 13 ‘film’ indipendenti) al cinema tradizionale sia riduttivo. Dau è un progetto in cui il girato tocca solo la superficie dei dilemmi che lo generano. Dau, che per inciso mi fa paura, è intriso dei dubbi del nostro secolo, per i quali nessuno riesce ad azzardare delle risposte. Temendo di azzardare una visione. Al contrario del futuro, che attende il nostro giudizio, il passato non scade, si basa su ciò che conosciamo e ci offre un orizzonte definito.
ON line, a pagamento sono disponibili altre parti del progetto. Per tornare alla domanda iniziale, cosa spinge uomini ormai liberi, i cui diritti umani sono pienamente (o quasi) riconosciuti, a voler rivivere gli anni più bui del secolo passato? credo che per rispondere avrò bisogno di vederli tutti.
Ma temendo vivamente la vera risposta, al momento preferisco pensare che non ci sia.