“Come si tace al bordo del mar”, ovvero di quando Althusser strangolò la moglie

A questo mondo abbiamo solo due possibilità: sopravvivere, o no. Chi vive, sopravvive, chi muore, evidentemente, no.

La differenza sta nei diversi gradi di volontà che esercitiamo o possiamo esercitare, nello scegliere tra l’una e l’altra modalità di essere o non essere tra gli altri. Perché per avere la forza di scegliere come sopravvivere, occorrono impegno e determinazione.

Ma cosa succede quando non possiamo scegliere? Quando qualcuno si arroga questo diritto al posto nostro?

l'avvenire dura a lungoSuccede che chi sopravvive a spese di qualcun altro, o semplicemente decide per qualcun altro, prima o poi lo sente. Perché il carico delle vite di cui ha preso il posto, o che ha estromesso, pesa. Non lo diresti. Perché i passi, dopo il misfatto, lasciano al loro passaggio le stesse tracce di sempre; la voce non cambia timbro mentre urla al mondo le stesse (spesso inutili) prese di posizione. Eppure, l’appropriazione movimenta una parte di coscienza che prima o poi finisce per urlare in testa poche lettere ma molto chiare: IMPOSTORE.

Di qui l’esigenza di redimersi.

La redenzione innesca un processo che, stavolta sì, ci cambia. Perché tanto più il carico da cui dobbiamo redimerci pesa, tanto più tortuose appaiono le vie della sua liberazione. E alla fine essa può arrivare a distruggerci, rendendo vani la fatica e il desiderio di vivere fondendo le nostre coscienze con quelle di chi abbiamo sfruttato.

Non so se questo ragionamento abbia un senso, perché, a dirla tutta, non ho mai ucciso nessuno, ma è esattamente quello che ho pensato dopo la lettura delle due autobiografie scritte da L.Althusser rispettivamente 4 anni prima e 5 anni dopo aver strangolato la moglie, il 16 novembre 1980. Althusser, personalità molto nota in ambito accademico e non solo, soprattutto tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, non sarà mai processato per il suo atto criminale, giudicato incapace di intendere e di volere al momento del fatto. Pertanto non avrà mai occasione per un pubblico confronto.

L.Althusser con la moglie Hélène Rytmann

E allora vuole spiegarsi. Raccontare la sua versione di una storia che altri (la stampa, gli avvocati, il giudice) hanno raccontato per lui. Perché, è vero che era in stato confusionale quando ha commesso il fatto. È vero che ricorda solo ciò che avvenne prima e dopo l’omicidio, ma la sua è la storia di un uomo che ha avuto un’infanzia difficile; un uomo che ha lottato con gli effetti delle crisi depressive ciclicamente; che da sempre ha scelto di farsi aiutare dalla psicoterapia e che ha subito trattamenti (come l’elettroshock) in cliniche specializzate che negli anni ’50 usavano metodi, che noi oggi definiremmo molto poco ortodossi.

E quindi non è che lo dobbiamo giustificare, però un po’ potremmo anche cercare di capirlo. O no? E poi, diciamocela tutta. Pure la moglie non è che fosse priva di turbe. Quante volte aveva minacciato di volersi uccidere? Non aveva chiesto lei stessa al suo Louis, per favore, aiutami a farla finita che io da sola non ci riesco? È un dato di fatto che dall’autopsia risulti che lei non abbia minimamente tentato di difendersi mentre il marito la strangolava. Anche questo vorrà dire qualcosa. O no?

Ora, è chiaro che sono ironica. Perché un atto come quello commesso da Althusser è imperdonabile ed è facile parlare quando ancora una voce ce l’hai. Eppure, della lettura dei due libri: “L’avvenire dura a lungo”, scritto nel 1985 e “I fatti”, scritto nel 1976, sono altre le cose che colpiscono.

Personalmente ciò che più mi ha colpito è, da un lato, la grande lucidità dell’intellettuale nel raccontarsi (prima e dopo la tragedia), che per essere una persona incapace di intendere e di volere, seppure temporaneamente, mi sembra un dettaglio significativo, dall’altro l’evidente cambio di registro di fronte agli stessi fatti, raccontati alla distanza di un tempo scandito dall’incredulità e dalla perdita dell’orgoglio. Oltre ad un cambio di registro, un cambio di sguardo. La deliberata, a volte, mistificazione della messa in luce dei fatti. Mistificazione dettata da un nuovo io, con una nuova percezione di sé e di tutto il resto: passato compreso.

Ora, che la memoria non sia oggettiva, che i ricordi siano costruzioni e non descrizioni, che il mondo in cui viviamo sia frutto di una generazione di significati figli della contingenza e della successione degli attimi, lo sappiamo tutti. Ma qui abbiamo nero su bianco la testimonianza di un intellettuale che sa scrivere, e sa scrivere di sé. Sa argomentare, essendo l’argomentazione alla base del suo essere filosofo. Conosce i meccanismi della psicoterapia dal suo interno, e usa tutto questo per chiederci di condividere ciò che, ormai, pensa di sé. Seguite il mio ragionamento, sembra dirci, non è logica la sua conclusione?

Nel testo scritto nell’85 ma pubblicato postumo, Althusser non chiede mai perdono per ciò che ha fatto (come potrebbe, e a chi poi?), ma spera nella condivisione del suo ragionamento. Il punto è farci rimanere in bilico, tra due parole dal significato ambiguo e relativo (vittima e carnefice) lasciandoci disorientati. E se anche con me questo non ci riesce, in generale, forse un po’ ci riesce. E su questo si deve riflettere.

lagioiaIn senso lato il suo percorso un po’ mi ricorda il tentativo, di gran lunga successivo, attuato da Nicola Lagioia nel raccontare il caso Varani ne “La città dei vivi”, quando descrive Prato e Foffo come “assassini a loro insaputa”. Carnefici per puro caso. Scrive Lagioia: “Tutti temiamo di vestire i panni delle vittime. Viviamo nell’incubo di venire derubati, ingannati, aggrediti, calpestati. Preghiamo di non incontrare sulla nostra strada un assassino. Ma quale ostacolo emotivo dobbiamo superare per immaginare di poter essere NOI, un giorno, a vestire i panni del carnefice?”.

Althusser cerca di superare questo enorme ostacolo grazie al racconto. Come un giornalista di inchiesta torna sulla scena del delitto, intervista amici, conoscenti, testimoni per caso, per ricostruire anni di blackout e perdita di memoria, anni di confusione e sdoppiamento del sé. E si ricostruisce raccontandosi. Una identità capace di convivere con l’idea di aver ucciso l’unica persona capace di sopportare ed accettare tutte le sue personalità. L’unica che lo amava davvero per quello che era. Un libro non solo autoreferenziale, come ogni autobiografia è, ma autoriferito. Degno di una redenzione terapeutica.

La sua infanzia, che ricorre sia nei suoi scritti degli anni ’70, che nell’autobiografia degli anni ’80, appare come se fosse stata vissuta da due bambini diversi. Louis è ironico e distaccato prima di scoprirsi assassino, pronto a dichiarare la sua parte attiva nella giostra della sua vita. Non è più così da assassino. La sua infanzia appare subita, i suoi difetti diventano indizi e le sue debolezze chiave di volta. Nel 1985 Althusser ha 67 anni. Ne aveva 62 quando da vittima si trasforma in carnefice senza volerlo. E a 67 anni incasella ogni dettaglio della sua vita dentro il corpo di un uomo nuovo, che ha cercato di dare un senso rinnovato ad ogni traccia di ciò che era. È così che scarica il suo peso e sceglie di stare di nuovo bene.

Le autobiografie di Althusser, dato l’alto valore intellettuale del suo autore, mi fanno riflettere molto sulla capacità che ha il racconto di cambiarci e farci cambiare il mondo. La lettura di questi testi è stata, per me, molto appassionante. Ma essa è anche la dimostrazione che il racconto non riesce a salvarci per sempre.

Che ci sono cose attorno alle quali non puoi girare attorno.

E per quelle devi chiedere scusa, pur sapendo che non c’è nessuno pronto ad accettarle, le tue scuse. Per quelle cose, attorno alle quali non puoi girare attorno, tu devi continuare a chiedere scusa. Per sempre.

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