Riflessioni sul #metoo retroattivo

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Sono una donna che da giovanissima, prima ancora di laurearsi, ma forse prima ancora di prendere la maturità, aveva ambizioni di carriera. Una donna che ha fatto tante cose nella vita e lavorato in tanti ambienti. Una donna che ha sposato un regista, categoria mi pare al giorno d’oggi molto a rischio, e continua a fare tante cose. Una donna fatalista. Una donna che ha sempre morso la vita e ha fatto tante scelte senza avere mai rimpianti. Una donna che ha fatto anche tanti sacrifici continuando a non avere rimpianti. Una donna che vive nel presente guardando al futuro. Una donna che prende il passato per quello che è: un trampolino da mettere da parte dopo che ti ha dato la spinta. Indipendentemente da dove ti ha fatto atterrare.

Oltre a tutto questo sono anche una donna molto riservata. E da giovanissima anche molto timida oltre che molto riservata. Una che non si confida, neanche con le amiche. Concentrata su se stessa e molto riflessiva. Una che le cose dopo che le ha vissute, le rielabora e le archivia dopo averle comprese ed etichettate. Una dal carattere così.

Nel fare scelte senza avere rimpianti c’è compreso il fatto che ogni volta che mi si è presentato un bivio nella vita, reale o apparente, ho cercato di trarre il meglio dalle strade che il bivio mi apriva senza pensare troppo a quelle che mi negava. In questa caccia alle streghe che si è aperta sullo sfruttamento, sulle molestie, le violenze, le avances e tutto il resto, avrei potuto scrivere #metoo decine di volte. Come tantissime donne che, come me, vivono il presente per quello che è. Ma non l’ho fatto. Non solo. Lo avrei ritenuto oltre che sconveniente del tutto senza senso. Provo a spiegarvi come la vedo.

La prima volta che un uomo che non faceva parte della mia sfera privata, mi ha messo in imbarazzo con una proposta, avevo 19 anni. Ero al secondo anno di Università. E l’uomo in questione era un mio docente. Avevo bussato nel suo ufficio durante il suo orario di ricevimento. Ero entrata. Avevo fatto le domande che avevo preparato sul corso (lo so che sembrerà assurdo a tanti studenti di oggi, ma un tempo prima di parlare ad un professore le domande si studiavano e si ripetevano tra sé e sé tante volta per essere sicuri che sembrassero intelligenti…). E lui, un uomo affascinante sulla cinquantina, rispose cordialmente. A tutte le domande. Poi, però, cominciò a parlare di sé finendo con l’invitarmi a rilassarmi a casa sua al mare uno di quei week end. Che lui aveva una bella casa al mare in cui viveva da solo. E che da brava studentessa qual ero me lo meritavo. Stavo studiando davvero molto. Che c’era di male?

E poi mi raccomando “col fisico che hai ricorda di portare un bel bikini, che sarebbe proprio un peccato che tu nascondessi le tue forme sotto un costumaccio intero”. Tutto così. A porte chiuse. D’emblée.

Rimasi un po’ spiazzata, tanto più che lui era così tranquillo e continuava a sorridere. Reagire male sarebbe stato di certo sconveniente. In fondo era rimasto al suo posto, non aveva allungato le mani. In più di certo non potevo dire che mi avesse ricattato. Nessun riferimento all’esame o a cosa avrebbe rappresentato quell’incontro. Certo le sue battute mi sembrarono fuori luogo, ma cosa mi impediva di rispondere dicendo la mia e poi “ciao”?. E infatti così feci. Dissi qualcosa del tipo: “La ringrazio, il suo invito è cortese, ma sono davvero molto concentrata sullo studio. Non credo di potermi permettere un week-end fuori”. Lui non fece una piega. Disse solo: “Peccato, ci saremmo divertiti”. E nient’altro. Mi porse la mano. Ci salutammo e mi chiusi la porta dietro una volta uscita.

Non lo raccontai a nessuno. Ma io ero così. Non raccontavo mai niente a nessuno. Ci pensai però. Tanto che cominciai ad osservare tutte le studentesse che entravano nel suo studio, da quel momento in poi. Molte ex studentesse a dire il vero. Studentesse divenute poi sue assistenti. Le osservavo. Semplicemente. Senza saltare a nessuna conclusione. Osservavo come si osserva per la prima volta un mondo che devi aggredire, ma di cui non sai niente. Pensai: “Non è che questo me la fa pagare all’esame? Non è che tutte queste ragazze che entrano…”. Ma magari no. In fondo, pensavo solo tra me e me.

Andando avanti nella storia: mi preparai per l’esame. E il docente in questione, che mi interrogava con una delle sue assistenti, mi fece i complimenti per la mia preparazione. Mi mise 30. Pensai di meritarlo. E automaticamente dimenticai tutto il resto. Che poi… che fu? Posso dire che sarebbe successo se avessi accettato? No. Come non posso dire cosa non sarebbe successo se avessi accettato. Pensai, al contrario, che, certo, non ti viene una faccia tosta del genere nel chiedere certe cose, se qualcosa (o qualcuno) non ti ha dato ad intendere che si possano ottenere. Ma da donna che conosce le donne, sapevo che non dovevo prendermela solo con lui per questo. Mi misi in tasca il libretto e non ci pensai più.

Eh sì. Perché la prima volta che un uomo, che non apparteneva alla mia sfera privata, mi mise in imbarazzo, la mia vita non mi mise di fronte ad un bivio. Però non posso dire che mi andò sempre così bene in seguito. Ho cambiato la mia vita almeno due volte, a causa di questi ‘imbarazzi’.

A qualcuno dei miei conoscenti dovrà pur essere venuto il dubbio sul motivo per cui, una ragazza che dopo aver corso nella vita così tanto, essersi laureata a 23 anni ad un corso quinquennale di fatto con un anno in anticipo, aver ottenuto il proprio PhD a soli 26, aver vinto lo stesso anno un concorso per l’Abilitazione che l’avrebbe (probabilmente) trasformata in professore ordinario a soli 32, decise d’improvviso di inviare una disdetta, fare le valigie e lasciarsi alle spalle quel sogno. Io non raccontavo niente a nessuno. Io ero così. Ma avevo trascorso 3 anni di dottorato molto, molto difficili. Non avrei resistito così altri 6 anni. Nel pacchetto di essere una persona riservata che non si confida, c’è anche il fatto che la gente ci pensa due volte prima di chiedere. Nessuno mi chiese cosa mi avesse spinto veramente a rinunciare. Ma io lo sapevo.

Erano stati tre anni passati ad essere spiata, pedinata, adulata dal mio relatore per poi essere umiliata ogni volta di fronte al rifiuto. Tre anni in cui nessun esplicito ricatto si consumò mai realmente. Nessuna violenza fisica (sebbene una volta mi toccò dargli una bella spinta, anche se non ero sola, perché lui si era ubriacato dopo un convegno). Tre anni in cui ad ogni rifiuto di correggere il mio lavoro fuori dall’ufficio, e invece magari al ristorante, o all’albergo più vicino, corrispondevano nottate passate a riscrivere interi capitoli, che automaticamente diventavano spazzatura. Ricordo ancora una volta in cui, poiché per motivi familiari mi ero trattenuta in Italia con il mio compagno più del dovuto, e avevo saltato una revisione con lui determinate per un esame che avrebbe decretato il rinnovo del mio stipendio, mi convocò nel suo ufficio 5 volte per 5 giorni di seguito, chiedendomi ogni volta di riscrivere da capo la mia relazione (che dovevo scrivere in tedesco, che non è che mi venisse proprio automatico). Mi ricordo che al quarto giorno gli dissi una cosa del tipo: “Non capisco perché se la prende così sul personale. Se mi bocciano all’esame è il mio di stipendio che non rinnovano, non il suo”. E nel frattempo pensai: “Forse sarà pure un pezzo di merda, ma ormai so praticamente tutto a memoria. Di sicuro lo stipendio l’anno prossimo non me lo toglie nessuno”. E infatti la commissione fu colpita dalla mia esposizione e mi rinnovò il contratto. Lui mi chiese scusa in seguito per questo comportamento adolescenziale. Ma io feci finta di non ascoltarlo. Non mi importava certo ciò che pensava.

Sono figlia di genitori di montagna. Ho la testa dura e una determinazione  al limite dell’orgoglio, che è poi la mia gioia e la mia rovina insieme. Fare le cose non mi spaventa. Non mi spaventa cambiare la mia vita. Prendo tutto ciò che viene in parte come un’opportunità in parte come una necessaria opportunità e rifletto per comprenderlo. All’epoca dissi a tutti che rifiutai il contratto per l’Abilitazione perché ero stanca di Berlino. Bugia. Ma una bugia che accontentò tutti. Anche perché era della mia vita che si parlava no?

Ancora una volta: posso dire che sarebbe successo se avessi accettato quegli inviti a cena o in albergo? No. Come non posso dire cosa non sarebbe successo se avessi accettato. A 23 anni quel mondo che volevo aggredire mi era già più chiaro (studiavo e lavoravo mentre ero iscritti all’Università, quel famoso docente che mi invitò al mare fu solo il primo di una serie di situazioni imbarazzanti a cui la vita non privata mi avrebbe condotto). Continuavo a trovare sconveniente, oltre al comportamento degli uomini imbarazzanti, quello delle donne che li affiancavano. Sì perché mentre io riscrivevo i miei capitoli di notte, al ristorante ed in albergo, il mio relatore raramente andava solo. Tanto per dire.

Io osservavo. E prendevo decisioni per me. Perché non mi sono mai sentita meglio di nessun altro. Non incolpavo nessuno in particolare per quelle scelte che mi sentii costretta a prendere. Anche perché, mentre parlavo tra me e me, quando mi sentivo vittima, di carnefice non ne vedevano mai uno solo. Mai. Pensavo: è la vita baby. Il mondo è fatto di persone diverse che fanno cose diverse con senso del pudore diverso e che si imbarazzano per cose diverse. Punto. Chi sei tu per giudicare loro? Vivono una volta sola anche loro come te.

Lo pensavo quando di fronte alle convention di lavoro i manager mi allungavano il proprio numero di stanza sotto al tavolo, proprio il giorno prima dell’assegnazione di una gara, o quando il mio talento in svariati campi improvvisamente veniva meno perché non mi presentavo agli appuntamenti serali ma solo a quelli di mattina. Una volta un mio ex-datore di lavoro prima di mandarmi via mi disse: “Signorina non se la deve prendere. Non può pensare di continuare a giocare in una squadra se non accetta le regole del gioco”. Per carità. Avanti il prossimo.

Ognuno gestisce la sua vita come vuole. Trovo disonesto costringere qualcuno a cambiare strada solo perché ha il potere per farlo. In qualsiasi campo. Penso però anche che si tratta di un circolo che si spezza solo con la volontà di farlo. Che se è vero che è difficile fornire le prove di una molestia, che spesso passa per vaghe allusioni e per torbide carezze, allo stesso modo è difficile dimostrare di essere vittime ingenue. Per questo, per tornare al #metoo, il punto è che nonostante abbia una lista davanti ben precisa di persone con cui ho avuto a che fare e che definirei professionali, e di altre che, al contrario, definisco imbarazzanti solo a nominarle, queste ultime non le metterei nero su bianco. Ora intendo. Dopo tanti anni. Il #metoo ha senso non se è una denuncia. Il cui confine di legittimità a volte mi sfugge, ma solo se funge da deterrente. Almeno io la vedo così.

Davanti a tutte quelle porte che mi sono chiusa dietro e che qualcun altro ha aperto, se avessi sentito dire #metoo mi sarei messa a ridere. Non sono molto cambiata.

Forse perché tutti i cambi di rotta che ho dovuto effettuare nella mia vita mi hanno portato ad avere alla fine la vita che volevo. Forse. Ma spero comunque che tutto questo trambusto, che non sempre giustifico, abbia messo paura a qualcuno. Di quella famosa lista.

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