Solo pochi giorni quelli trascorsi a Calcutta. Troppo pochi per poter solo rendersi conto di un cambiamento. Così mi preparo a ripartire per la prossima tappa con un grande turbamento interiore. Un giorno capirò. Mi dico.
Day 4. Sveglia alle 5:00. Il driver ha l’ordine di prelevarmi alle 5:30 dall’albergo. Io provo a spiegare che, avendo il volo alle 10:35, forse è un po’ presto. Che va bene che il traffico è imprevedibile ma che traffico dovrebbe esserci già alle 6? Ma niente. Parimal ci tiene ad essere sicuro che non perderò il volo. E così, mi rassegno alla sveglia alle 5 e…. a trascorrere quasi 4 ore all’aeroporto mezza addormentata. Ovviamente.
Che poi l’aeroporto di Calcutta è piccolo e anche volendo, a parte sedersi da qualche parte e provare a leggere o scrivere, si può fare poco. Compro un giornale e aspetto. Penso al mio arrivo, ed al fatto che è finita la parte di viaggio in cui sono sola, ché una volta a Bangalore, dove sono diretta, continuerò questa avventura al fianco di mio marito che è lì già da qualche giorno per il suo lavoro.
All’aeroporto mi sento osservata. Nessuno mi importuna, ma è chiaro che una donna con la fede al dito che viaggia da sola non sia proprio giudicata benissimo. Ne prendo atto e spero di non doverne rispondere. Abbasso gli occhi e lascio trascorrere il tempo.
Dopo il terzo estenuante cambio di gate, è giunto il momento di partire davvero. Tre ore di volo. Solo tre ore di volo per farmi sentire completamente spaesata.
Quando esco dall’aeroporto mi domando dove sia finita. Se l’india era quella che avevo appena lasciato, dove sono ora? O forse è questa l’India e sono solo io stanca che non riesco a percepire dove sono? E’ che Bangalore non mi sembra molto diversa da una moderna città occidentale. Lo stesso tipo di caos, le stesse strutture e le stesse catene di negozi.
Certo i volti. I volti tradiscono molte cose. Ma, indubbiamente, mi sembra di avere, in poche ore, cambiato addirittura continente. Queste sensazioni, anziché indebolirsi nei giorni successivi, si andranno intensificando regalandomi però anche una serie di piacevoli sorprese.
Luigi, che dovrebbe venire a prendermi col suo driver, è in ritardo perché imbottigliato nel traffico. Approfitto quindi per comprare finalmente una SIM card indiana, che fuori dall’aeroporto non potrei comprare se non per intercessione di un cittadino indiano che intesti la card a suo nome.
Impiegheremo più di mezz’ora a capire come risolvere il problema di non avere con me una foto tessera cartacea – l’addetto accetterà dopo più di 20 minuti di contrattazione il compromesso che, siccome i documenti li dovremo spedire in digitale, forse inviargli per mail una mia foto tessera digitale è di buon grado la soluzione più semplice. E discuteremo per almeno 10 minuti sul fatto se sia il caso o meno di sottoporre al funzionario la mia documentazione, visto che la firma, che ho apposto davanti al lui, non è perfettamente identica a quella che, tre anni prima, ho apposto sul mio passaporto. Ma vabbè. Mio marito è molto in ritardo e la fila dietro di me non protesta. Così pago e incrocio le dita sull’esito dei famosi controlli.
Poiché è molto caldo, decido di fare pranzo con un gelato e aspetto.
Le persone che, mentre sono seduta ad aspettare, vanno e vengono, stanno quasi tutte aspettando un UBER, o un autista privato. Vedo pochi taxi locali. Questa cosa mi farà riflettere. Nei giorni successivi capirò che, in effetti, qui in India se vuoi assicurarti di arrivare a destinazione in tempi giusti e più o meno onesti, è a loro che ti devi affidare. L’unica volta che prenderò il taxi nei giorni successivi, l’autista riuscirà a perdersi due volte prima di arrivare all’hotel, facendomi maturare due ore e mezzo di ritardo sull’orario previsto per il mio appuntamento.
Ritardo del quale, peraltro, sembro preoccuparmi solo io. Perché le persone che dovevamo ricevermi, senza scomporsi troppo, hanno semplicemente riorganizzato l’agenda di conseguenza. That’s it. E la mia rigidità professionale non solo vacilla. Semplicemente appare del tutto priva di senso. Se ci penso bene, infatti, al di là del tempo perso, non ho forse fatto tutto ciò che avevo programmato? Sinceramente sì.
Ma torniamo all’aeroporto, dove finalmente Luigi compare con il suo driver.
Il traffico ci inghiotte e cerchiamo di capire come gestire al meglio ciò che rimane del giorno. Mi faccio raccontare le impressioni sul suo viaggio fino ad ora e mi rendo conto sempre di più, di quanto sia diversa questa città da Calcutta che ho appena lasciato.
Bangalore è considerata la Silicon Valley indiana. Qui si concentrano i maggiori investimenti nell’hit tech di tutta l’India. Qui fioriscono startup ed hanno sede le maggiori Software House del Paese. Per questi motivi, è una città piuttosto ricca e molto giovane. E i giovani amano qui quello che amano ovunque: fare soldi velocemente e spenderli divertendosi. La night life è quindi molto attiva e ci sono locali all’occidentale in ogni angolo. Se non fosse per quei volti e quegli angoli di verde che reclamano spiritualità, potrei essere praticamente ovunque.
A Bangalore ci sono molti italiani, giovani e dinamici. Grazie al lavoro di mio marito entro in contatto con loro sin dalla prima sera. Sono attivi nel mondo dell’arte, del design, del fashion, ma anche dell’industria e dell’educazione. Sono tutte persone dotate di grande entusiasmo, che non si domandano troppo dove li porterà il futuro, ma che si godono il momento in un posto stranamente magico. Un posto con tanta voglia di riscatto e di fare, ma con una cultura così diversa da tutte le altre.
A cena quella prima sera ognuno racconta episodi legati alle stranezze del posto. Penso sia un classico di quando sei a cena con persone che, nel posto in cui ti sei radicato, o hai cominciato a radicarti, ci sono per la prima volta. Li ascolto sorridendo pensando a come, nonostante siamo tutti così diversi, in fondo l’appartenenza alle stesse origini, ci faccia notare esattamente gli stessi particolari. Non importa quale sia il nostro background, l’essere italiani ci garantisce un sostrato culturale che si fa sorridere e sorprendere esattamente per le stesse cose.
Day 5/6. I giorni seguenti trascorrono in modo piuttosto ordinario. Sveglia, colazione, immersione nel demone del traffico, visita ad Accademie ed Università partner o potenziali tali, e cene tra italiani. Di questi due giorni mi rimarranno, alla partenza, più che il sapore di diversità culturali, un insieme di storie.
Quella di Meena, che gestisce la più importante Accademia di Belle Arti di Bangalore, con il volto maturo e apparentemente remissivo, ma con una grinta graffiante, un marito trasgressivo e una apertura al mondo spiccata. Quella di Maria Laura, giovane curatrice dallo sguardo talvolta spaesato, ma determinata in ogni sua scelta. Che affronta coraggiosamente il mondo dell’arte agli antipodi del mondo, da sola e senza bisogno di sostegni oltre al suo sapere. Quella di Giuliano, imprenditore ormai maturo, che in India era venuto per adottare suo figlio, ma che poi dall’India non è più riuscito ad andare via. Quella di Francesca, mamma di due figlie adolescenti con un passato da modella in tv, dal volto rassicurante e lo sguardo dolce, iperattiva nel non volersi rassegnare ad essere solo moglie e madre. Quella di Francesco, stilista di Molfetta che qui si destreggia tra ricerca di stile e desiderio di straniamento. Quella di Marine, una giovane francese dalla bellezza cristallina, che lavora nel fashion e mi spiega come riesce a sopravvivere in sicurezza nel Paese, pur essendo una donna che viaggia sempre da sola ed è difficile da non notare. Quella di Amedeo, giovanissimo veneto dal senso della comunità spiccato, una gran voglia di fare gruppo ed una simpatia naturale. Quella di Jayaditt, giovane rampollo di una famiglia di potere indiana con le idee chiare su come rendere Bangalore protagonista della rivoluzione industriale in atto.
E poi quelle di tanti altri, che solo per non annoiare, evito di nominare.
Le giornate passano a pianificare, le serate tra locali e bevute. Penso che alla fine ogni mondo è paese davvero. E che il vantaggio di conoscere molte persone, col tempo, sia solo quello di riuscire ad individuare più rapidamente in ognuna di loro, la loro vera natura. Quella che le abitudini non fanno vacillare. Quella natura che ti fa dire, alla fine dei conti, che se anche qualcuno o qualcosa abbia deciso per noi un aspetto diverso, di fronte ai grandi dilemmi della vita, tanto diversi non siamo. Che alla fine, cioè, non vale a molto essere più di tanto autoreferenziali, che così tanto speciali, alla fin fine, non siamo nessuno.
Day 7. Il mio ultimo giorno in India è un giorno che mi prendo per me. E’ domenica e finalmente posso fare la turista. Girare con la mia Canon al collo per mercatini, fare il giro del parco immersa nel festival dei fiori scrollandomi di dosso le responsabilità dell’origine del mio viaggio. Almeno questo era il programma che avevo pensato per me prima di uscire dalla mia stanza d’albergo.
Il programma cambierà nel momento in cui comincerò a passeggiare. Perché io, da fotografa per un giorno che volevo essere, passerò rapidamente per “la cosa da fotografare” del giorno. Non riesco a quantificare il numero di selfie per i quali mi è stato chiesto di posare. Ragazzi che cercavano di inserirmi nelle loro inquadrature a mia insaputa, genitori che mi gettavano i loro figli al collo per farmi scattare una foto con loro. Persone a cui poi, spontaneamente, io chiederò di restituirmi il favore, posando per me.
Pose che tutti mi concederanno con estremo piacere. Bambini, famiglie, anziani, tutti a ricorrere uno scatto della straniera. Nessuno che mi abbia chiesto di rivedere gli scatti. Come se fosse gratificante abbastanza, per loro, viaggiare con me e la mia macchina. Scatti concessi, e talvolta esplicitamente richiesti: “Scusi, che mi fa una foto per cortesia?” “Scusi, le spiace fare una foto alla mia bambina?”
Colleziono molti ritratti e ad ognuno non posso che soffermarmi a riflettere. Su quanto possa valere la condivisione di una foto. O il solo pensiero della sua condivisione. Su quanto poco valga una idea di sé, priva della sua rappresentazione condivisa.
La giornata mi confonde, ma d’altra parte non è stato tutto questo viaggio, una somma di caos al quadrato? Tutti questi scatti mi stancano. Mangio una fetta di anguria, privilegio di un luogo in cui è estate a gennaio, e torno in albergo. E’ ora di fare la valigia.
Al mio rientro in Italia la settimana appena trascorsa mi sembra lontana anni luce. E surreale. Mi rimangono molti contatti, tanta luce negli occhi e nostalgia per i colori. Quel senso di spensieratezza per la privacy riconquistata.
Eppure se chiudo gli occhi, mi sembra di essere ancora là e quasi non vedo l’ora di tornare.