My way to India. Diario di un viaggio. Day2&3: Calcutta

E’ passato solo un giorno dalla mia partenza, eppure niente mi sembra uguale. Mi lascio travolgere da ciò che è stato preparato per me, ma non riesco a non farmi turbare dai miei sogni.

Diario di un viaggio. Day2

La stanchezza, si sa, non aiuta il riposo. Ero andata a letto dopo aver dormito solo due ore il giorno prima, quindi anche questa sera, riposo malissimo. Tra l’altro, in camera non sono riuscita ad attivare lo spinotto per combattere le zanzare, quindi, oltre ad aver avuto serie difficoltà ad addormentarmi per il mal di testa, ho trascorso buona parte del tempo sotto le coperte a rischio soffocamento, per schivare le bestie.

Così la mattina quando suona la sveglia, sono più stanca di quando mi sono coricata. Sono i rischi di questo mestiere in fondo. Rischi del mestiere a cui si aggiunge quel mio imperdonabile difetto di essere puntuale. Che mi accorgo non essere per niente comune qui.

Alle 8:15 a fare colazione sono quasi sola e, nonostante per le 9:00 noi relatori siamo tutti nella hall ad aspettare le navette…le navette arriveranno dopo un’ora buona. Ci ripetono che qui in India è normale. Anche e soprattutto a causa dell’imprevedibilità del traffico (IL MALE di cui sopra), nessuno è abituato a rispettare l’orario dato. Eppure quel ritardo di quasi due ore sull’inizio previsto della conferenza non sarà senza conseguenze. Di fatto, facendo saltare tutti gli interventi programmati dei relatori stranieri della mattina, quel ritardo spoglierà la giornata dell’apparente spirito di confronto internazionale dell’evento per permettergli di rivelarsi in tutta la sua natura di spettacolo puramente mediatico.

Dopo essere stati accolti da radio, tv, cerimonie di fiori, benedizioni collettive, regali e foto di rito sotto un grande manifesto con le nostre facce in gigantografia, la giornata di risolve in poco più di un turbinio di danze e sorrisi.

Pronti? Via.

Esibizioni dell’orchestra, intervento del Ministro dell’Istruzione, incoronamenti individuali. Foto, sorrisi. Sorrisi e foto. Poi di nuovo danze e balli. Altre foto ed altri sorrisi. Le 2:00 del pomeriggio arrivano così. Aggiungendo poco altro alle formalità dei riti. Un pranzo veloce e ricominciano le danze.

Nel pomeriggio la delegazione universitaria che ci ospita ha in serbo per noi qualcosa di davvero speciale. Al quale nessuno di noi, ad essere sinceri, era pronto a partecipare. E di cui ovviamente non eravamo stati informati. L’istituzione privata che ha organizzato il convengo gestisce anche un asilo, una scuola primaria ed una scuola secondaria. Il percorso all’interno di queste scuole è particolarmente costoso se confrontato con lo stile di vita medio di un indiano a Calcutta. Ed in qualche modo, per essere incoraggiato, deve essere celebrato. Pertanto, in perfetto clima holliwoodiano di consegna degli Oscar, per circa tre ore e mezzo siamo invischiati in una premiazione a dir poco surreale.

Ogni ciclo scolastico presenta gli studenti in nomination per diverse categorie – l’allievo più educato, il più dotato di talento musicale, il più disciplinato, il più regolare nel rendimento, il più portato nelle materie scientifiche, ecc. – con dei video che testimoniano la loro bravura. Davanti agli occhi dei genitori e delle autorità, ognuno di noi, in qualità di VIP, honorable guest, è chiamato sul palco a proclamare. Con tanto di busta alla mano e momento di suspence prima del “The winner is”.

And the winner is…

A me tocca una ragazzina della prima elementare. Dal nome impronunciabile, chiaramente, che a quanto pare ha dimostrato durante l’anno una spiccata predisposizione per lo sport. Leggo ad alta voce il nome. Applausi. Foto e sorrisi. Sorrisi e foto. E la giostra riparte.

Io sono stanca, ho mal di testa, ma non voglio fare la guastafeste. Così mi limito a sgranare gli occhi e ad usare quelle ore in cui sono costretta a prestarmi agli obiettivi di videocamere e fotografi, per riflettere un po’. Parimal mi dirà il giorno seguente che quello è un modo per motivare i ragazzi nello studio. Che così tanto costa ai genitori, poiché loro ne farebbero volentieri a meno. Non sono tanti i bambini qui che hanno la fortuna di avere una educazione scolastica e quindi il confronto con gli altri bambini che alla loro età sono in strada a giocare è molto facile. In questo modo la Scuola prova a motivarli e a costringerli ad avere un rendimento regolare.

Questa spiegazione, ovviamente, non mi convince. Passo piuttosto il tempo rivolgendo lo sguardo alla platea. Penso a quei genitori che sgomitano per portare a casa un trofeo da esibire nella stanza del loro figlio. Penso a quei figli che ogni giorno, da quel momento in poi – momento che alcuni di loro, data l’età, probabilmente dimenticherà in fretta – alzeranno gli occhi dal loro letto e non potranno fare a meno di vedere la loro strada segnata. “Promessa dello sport”, “Promessa della musica”, già a 4 anni.

La sera a cena tutto questo sarà oggetto di discussione tra noi relatori. Ma, come probabilmente prevedibile, non siamo tutti d’accordo. Ad essere scioccati sembrano solo, oltre me, gli inglesi, i francesi, gli spagnoli e gli argentini. Polacchi e russi applaudono all’evento. Gli altri preferiscono non pronunciarsi. Tomasz, che qui rappresenta la Polonia, si spinge addirittura oltre e quasi mi addita – alludendo bonariamente alla mia ingenuità. “L’India si prepara ad essere una nuova potenza mondiale nel giro di 10 anni – mi dice – Quale altro modo hanno di affidarla alle persone giuste se non indirizzando queste generazioni? Ricorda Gianna, a quei volti che hai visto oggi, probabilmente fra qualche anno ci troveremo ad obbedire. Io mi sono molto divertito oggi”.

Cerco di immaginare quei bambini che sono stati costretti a recitare davanti alle camere per compiacere i genitori e giustificare l’esborso del loro portafogli, fra qualche anno davanti ad una camera simile costretti a recitare per compiacere una classe dirigente e giustificare le loro scelte. Niente. Proprio non ci riesco a non provare tristezza.

Stanchi morti e con la testa piena di confusione collettiva, torniamo a dormire anche stasera. Domani siamo invitati a sostenere la nostra conferenza nel Campus universitario che è ad almeno un’ora di auto dall’hotel, quindi dovremo metterci in marcia presto. Non c’è altro tempo per riflettere quindi. Forse meglio così.

Diario di un viaggio. Day3

Altro giro altra corsa. Ed eccoci tutti pronti per la giornata definitiva. Quella del confronto contenutistico, degli speech e delle discussioni con gli studenti. Il Campus è davvero molto distante dal nostra fantastico 5 stelle. Impieghiamo più di un’ora e mezzo per arrivare con il nostro pulmino. Questa volta, a poco serve il desiderio dei nostri referenti di proteggerci dalla città. Per arrivare in Università dobbiamo attraversare tutta Calcutta ed entrare in contatto con la periferia.

Il nostro pulmino è scortato da due auto che cercano di farci strada nell’inferno del traffico. Ma a poco serve. Più volte l’aiutante del nostro autista è costretto ad urlare battendo i pugni sul vetro per far spostare gente ed animali dalla strada. Quando non deve affacciarsi – perché qui ovviamente le porte degli autobus non le chiudono mai – per spostarli fisicamente. In un’ora e mezzo raccogliamo tutto ciò che c’è da raccogliere: la povertà, il caos, il terzo mondo che ti colpisce in piena faccia, i paradossi e le contraddizioni. Ognuno di noi nel proprio intimo cerca di scongiurare l’infarto che sembra probabile ad ogni metro e spera solo di arrivare il prima possibile.

Non eravamo pronti alla vista di questo tragitto, ma di certo eravamo ancor meno pronti a ciò che ci aspettava all’arrivo. In perfetto stile “Walk of Fame”, l’ingresso al Campus ci fa trasalire tutti.

Walk of Fame

I nostri volti sono diventati enormi manifesti disseminati lungo tutta la strada. Di nuovo ci aspetta una grande folla ad attenderci ed i nostri angeli custodi a farci da bodyguard. Per evitare che gli studenti ci tocchino o diano fastidio.

Ma che davvero? Ma poi non siamo qui per loro? E se non siamo qui per loro. Perché siamo qui?

Decido che da adesso in poi niente mi potrà più stupire, quindi presto il mio sorriso rilassato a qualsiasi richiesta. “Ma’m foto di gruppo?” Sorriso. “Ma’m selfie?” Altro sorriso. “Ma’m la aspetta il rettore in sala riunioni” Sorrisone. Al termine della giornata credo di aver concesso qualcosa come 200 selfie a studenti e docenti del corso.

Selfie time

Scattato foto di gruppo in ogni aula universitaria. Rilasciato interviste, risposto a qualsiasi curiosità sull’Italia, ricevuto di nuovo corone di fiori e benedizioni di vario genere. Accompagnato in processione tutti gli altri ad una esposizione degli studenti che ho opportunamente votato singolarmente, con tanto di sorrisi e foto. Foto e sorrisi.

Ah, e poi ho tenuto il mio speech ovviamente. Commentato chiaramente solo dai miei colleghi relatori. Ai quali avevo già peraltro anticipato i contenuti.

Al termine dello show, al quale ho partecipato assumendomi essenzialmente la responsabilità dei colori della mia bandiera, sono a dir poco frastornata. Stanca non è ormai nemmeno più il termine giusto per definirmi.

L’Università che mi ha invitato a parlare è privata ed esiste da soli 4 anni. Il suo desiderio di promuoversi e di espandersi è logico più che semplicemente ragionevole. Gli studenti che conta sono già tanti ed hanno grandi curiosità oltre che aspettative. Sono molto motivati e si spendono come possono, nonostante le infrastrutture lascino molto a desiderare.

Tutto mi appare come una fase necessaria ad una spinta che è stata innescata in modo così chiaro che è possibile individuarla in ogni mano che ci fanno stringere. Per questo mi sento chiamata ad un compito forse eccessivo. Garantire per la mia bandiera, essere valutata per lei. Credo di essere stata caricata di una responsabilità eccessiva soprattutto agli occhi degli studenti, ma so anche che so parlare agli studenti. Che mi capiranno, quando parlerò coloro uno ad uno. Ma questo non toglie che alla fine della giornata mi sento provata. Provata forse dall’entità di quella spinta, che, già so, forse proprio come diceva Tomasz a cena, arriverà lontano.

Lo vedo succedere. Lo sento crescere. Mi scuote e mi fa perdere. E’ così quindi che lascio Calcutta per Bangalore. Con la bocca piena ed un sapore che ancora non capisco se riuscirò a digerire.

(to be continued)

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