Dubai è uno strano posto. Una bolla in cui puoi rimanere rintanato nella tua cultura e immergerti nel lato più kitsch del lusso, o da cui puoi decidere di uscire per vedere che aria tira. Per poi, ovviamente, rientrare e tornare a rintanarti nella tua cultura. Un posto in cui molti si rifugiano per lavorare e fare cassa il più possibile per poi andare altrove. Un posto che difficilmente trattiene, che però attira, per molti motivi.
Se sei donna e sei occidentale chiaramente, il tuo modo di vivere la bolla è inevitabilmente filtrato. Perché, al di là della motivazione che ti spinge lì, quando ti affacci fuori, per vedere che aria tira, fuori dove ci sono i locali, capisci subito che non è proprio una bella aria che tira. Ma non in termini di sicurezza personale. Tutto si può dire di Dubai tranne che faccia sentire una donna in pericolo. Ma per il modo in cui vieni accolta. Perché, di fatto, non vieni per niente accolta. Quindi quando esci dalla bolla sei guardata, squadrata, spiata, giudicata. Tutto con gli occhi.
Mio marito dice che sono esagerata. Perché lui quegli sguardi ovviamente non li nota neanche. E che finché nessuno mi dice nulla lui non capisce perché io mi faccia poi così tanti problemi. Ma che ti frega di quello che pensano i locali. Che poi io non è che mi faccia un problema, ma è che quegli sguardi indagatori – maschili e femminili si intende – proprio mi pesano addosso. Perché il Paese in fondo è il loro. Ed io non sono altro che ospite.
Così voglio cercare di capire. Almeno provarci un pochino, ecco. E decido di fare una gita.
Ho il pomeriggio libero e non sono molto lontana dalla zona della DEIRA. La zona famosa per il Mercato dell’Oro di Dubai. In questa stessa zona, nel 2012, è stato inaugurato un Museo delle Donne. Che già il fatto che alle donne sia dedicato un museo… Mi faccio guidare dalla curiosità e lo vado a cercare.
Cercare in effetti è la parola giusta da usare per questa visita. Perché il museo da trovare non è facile. E’ situato in mezzo alla zona del Souk, ma non è indicato in strada da nessuna parte. Google Maps mi fa girare in tondo più volte e continuo a guardarmi attorno senza successo. Dovrò chiedere due volte a dei passanti per trovare la via giusta e imboccare l’arco esatto.
Mi ero assicurata, prima di partire, cercando on line, che il Museo fosse aperto. Eppure, da fuori, è tutto buio e sembra tutto spento. Provo comunque a spingere il portone. Ed infatti è aperto.
La donna all’ingresso non parla bene inglese, così chiama la sua collega che, nonostante abbia il volto interamente coperto, parla ad alta voce cosicché possa sentirla bene anche se non riesco a leggerle le labbra. Mi spiega dove posso fare foto e cosa, invece, non posso fotografare. Fine.
“Buona visita”. Dice.
Il museo è privato, voluto ed interamente finanziato da una professoressa emiratina, Rafia Ghubash. E’ ospitato in una casa degli anni ’50 del secolo scorso, di importanza storica. Non è molto grande e si sviluppa su tre livelli: il piano terra, il mezzo piano ed il primo piano. Tutte le opere contenute sono donazioni di famiglie private. E’ inutile sottolineare da quale famiglia provengano le donazioni più cospicue. Se dovessimo avere dei dubbi, basta guardarsi leggermente attorno per capire.
Comincio la visita dal primo piano, seguendo la donna che mi ha accolto.
Il piano è interamente dedicato alla visione che delle donne ha lo sceicco Zayed Bin Sultan Al Nahyan, padre fondatore degli Emirati Arabi Uniti. “Zayed empowering women” è il nome dell’esibizione e consiste di tre parti.
Una zona è riservata alle citazioni dello sceicco legate alla sua visione emancipata delle donne. Per dovere di cronaca vorrei riportare una delle più significative: “Women who work deserve our recognition but the first priority should be the home, which is her first kingdom. When the primary responsibility is as a mother and a wife, this should come before anything else in her life“. Vi basterà leggere sotto se siete curiosi del resto.
La seconda è rappresentata da una esposizione di foto dello sceicco accanto a delle donne, comprese quelle in cui inaugura il museo, di fronte alla donna fondatrice.
E infine un’opera di Jamal Abdul Rahim (un uomo per chi avesse il dubbio) dove sono state combinate delle poesie dello sceicco dedicate alle donne, con delle immagini dell’artista.
Non cominciamo bene, mi dico, ma rimangono da vedere il piano terra ed mezzo piano. Magari mi ricredo.
Al piano terra, che in teoria non è fotografabile perché contiene la maggior parte delle donazioni della famiglia reale, troviamo una serie di oggetti di uso domestico, gioielli ed abiti da sposa, noti per essere stati indossati dalle donne il giorno in cui hanno sposato uomini di rilievo pubblico.
Su una parete, delle miniature ritraggono alcune donne indicate come pioniere in diversi settori: medicina, ingegneria, educazione. Peccato, però, che non siano indicati i loro nomi – perché sono “solo una parte di tante donne che hanno dato il loro contributo nella vita pubblica”, questa la giustificazione – e dietro quel velo nero, praticamente sembrano tutte uguali.
Mi rimane ancora un piano da esplorare. E qui vedo forse l’unica cosa suggestiva dell’abitazione. Una istallazione dedicata alla poetessa emiratina Osha Bint Khalifa Al Suwaidi, definita “the girl of the Arabs” dallo sceicco Mohammed Bin Rashid Al Maktoum nel 1989, quando era principe incoronato di Dubai. Una stanza in cui immergersi tra le parole della sua poesia. Una poesia che, purtroppo, a chi non parla arabo non è dato fruire, perché di tradotto, ahimè, non si trova nulla on line. Un lirismo che il sultano Al Amin, direttore dell’Abu Dhabi Poetry Academy ha celebrato il questo modo, in occasione della sua morte avvenuta lo scorso 2018, all’età di 98 anni: “She proved that women in UAE can write or recite at the same level as men”. Giusto se il concetto non era chiaro.
Io sono l’unica visitatrice del giorno; chiedo come mai il museo sia così nascosto e se sono l’unica ad aver avuto difficoltà a trovarlo. La ragazza che mi aveva accolto all’ingresso dice che, sì, purtroppo la zona può indurre confusione, ma che ogni tanto comunque qualcuno passa a trovarle. E loro sono molto grate per questo spazio che è stato concesso loro e sperano di avere altre donazioni per poterlo arricchire. “Perché non ospitare opere di giovani donne che necessitano di farsi conoscere?”, chiedo. “Noi accettiamo le donazioni di tutte”, risponde. Al che capisco che non mi stava veramente ascoltando, perché mi stava chiedendo dei soldi. Così lascio delle banconote all’uscita e vado fuori.
Ripercorro la strada verso la metro con cui sono arrivata, al contrario. E i passanti mi chiamano per farmi entrare nei loro negozi. “Welcome back ‘mam. Zafran? Spice?”. Ma io ho la testa ancora ingolfata, che tenta di decifrare quegli sguardi uniti alla remissione di quelle donne.
E così dopo essere brevemente uscita dalla mia bolla, ci torno.
Commenti
Gli occhi che hai sentito come “giudicanti” poi non sono altro come quelle telecamere negli ascensori e in tutti i tratti di passaggio nei luoghi pubblici necessari per dirimere le denunce di aggressione che, altrimenti, le donne subirebbero in ogni dove.
Il tuo resoconto, tanto crudo quanto vero e coinvolgente, è l’emblema di come ancora sia distante il percorso fatto dalle donne in altre parti del mondo.
Per assurdo, sembrerebbe che la ricchezza aumenti la distanza tra diritti acquisiti tra uomini e donne. Prova ne sia che tra i parenti più stretti all’emiro, quindi con redditi garantiti procapite molto più alti, le voci femminili sono praticamente assenti.
Eppure tutto ciò esercita un fascino su molte donne occidentali che, improvvisamente, amano essere guardate e rispettate con un occhio diverso, nobile, elegante, che appare disinteressato. È questo fascino che, secondo me, dimostra come noi uomini occidentali non sappiamo più guardare, vedere, accogliere e comprendere l’interiorità della donna che abbiamo vicina.
Grazie infinite per questo tuo racconto dal vero.
Carlo
del Post
Grazie a te Carlo per le tue parole. Apprezzo intimamente il tuo commento. Essere donna, ancora oggi, non è facile. Quasi ovunque. Con le dovute proporzioni. Non sono femminista, non sono sempre dalla parte delle donne. Semplicemente credo che raggiungere un equilibrio tra la nostra fragilità naturale e la forza delle proprie convinzioni, non sempre ci porti a fare le cose giuste. Ma dovremmo avere comunque tutto lo stesso diritto di sbagliare, e tentare di nuovo. Senza essere guardate, spiate, giudicate.