Detto altrimenti. Lingue vive oltre il vissuto. Ascoltando Jhumpa Lahiri.

in other words

Quanto l’educazione e l’apprendimento della lingua madre influenzino il nostro modo di vedere, vivere e percepire il mondo è ben noto, e sotto il riflettori della neurolinguistica ormai da diversi anni. Non è una novità registrare diversità cognitive dettate dall’essere nati e cresciuti sotto l’egida di un regime sintattico differente, né una sorpresa, al contrario, trovare affinità di approccio alle esperienze vissute, legate all’utilizzo di campi semantici simili per riferirsi ad esse. Dare un preciso nome alle cose, farsi strada tra precise regole per descriverle e renderle vive, ci rende contemporaneamente simili a dei gruppi e differenti da altri, in un modo prevedibile e che da sempre ci aiuta a garantirci un posto di facile riconoscimento nel mondo.

Eppure, il dilemma di essere costretti a ragionare secondo schemi che il caso ha scelto per noi facendoci nascere in luoghi e contesti culturali che non abbiamo voluto in base alla nostra natura, non è per questo sciolto. Non tutto ciò che contribuisce alla costruzione della nostra identità, infatti, è legato alla nostra educazione. La nostra natura ci tradisce. Una natura che spesso ci vuole caotici all’interno di un sistema lineare, equilibrati in un sistema confuso e complesso, irrequieti in un sistema rassicurante, e così via. Quando la nostra natura lotta con la nostra educazione, non si riconosce negli schemi che essa gli impone per registrare il proprio posto nel mondo, non ci resta che avviare un percorso di fuga. Costruttivo ovviamente. Rifugiarsi in nuovi credo, esplorare nuove culture, provare a vivere in altri contesti, consapevoli che la radicalizzazione di questi cambiamenti può avvenire unicamente intervenendo sullo spostamento del nostro gancio con l’apparato cognitivo, che solo la lingua può sovvertire.

Jhumpa Lahiri nasce in un contesto anglofono, da genitori che la educano in lingua bengali. Combattuta tra due visioni del mondo offerte da due mondi conoscitivi di per sé poco affini, quello indiano e quello americano, scopre con gli anni che nessuna delle due lingue con cui è costretta a leggere il mondo le appartengono. Perché la sua natura la spinge verso una terza lingua, completamente svincolata dalla sua educazione, richiamata solo da un’inspiegabile affinità viscerale: la lingua italiana. Il racconto di questa esperienza è racchiuso in un testo che decide di scrivere in italiano sin dalla prima riga, sovvertendo completamente alle sue regole di scrittura: “In altre parole” (Guanda, 2015).

L’amore per la lingua italiana, oggetto del testo, viene descritto nel suo intero processo di interiorizzazione. Da colpo di fulmine si trasforma, pian piano, in amore protettivo e materno, da tentativo intrapreso di rimanere a galla nel mare delle sue definizioni a luogo di esplorazione e passeggio spensierato. La scoperta della propria affiliazione con un linguaggio scollegato completamente alle proprie origini, genera nella Lahiri il desiderio di perfezionarsi nel suo uso per essere vista, agli occhi di noi italianisti (casualmente) per nascita, come una italiana madre lingua, cosa che genera un senso di naturale incompletezza che si respira in ogni pagina dello scritto. Ogni lingua parlata e scritta, assume per Jhumpa Lahiri la riaffermazione di aspetti frammentati della sua personalità, che mai potrà dirsi risolta in una dimensione unica. Eppure io credo che averlo scoperto, sebbene inspiegabilmente, rappresenti di per sé, LA vera ricchezza.

Chi fa della ricerca delle parole il proprio mestiere, infatti, è un esploratore di mondi per definizione. In qualsiasi linguaggio egli si esprima, il suo lavoro di costruzione passa inevitabilmente per l’esplorazione del proprio mondo interiore. La scoperta della Lahiri di una affinità naturale per un approccio linguistico ben preciso e riconoscibile, sebbene la condanni ad una prospettiva talvolta schizofrenica agli occhi del lettore, rappresenta la conquista di una maturità espressiva che raramente un artista ha il piacere di riconoscere.

E questo è bello. E intenso oltre ogni limitazione.

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