My way to Nymphomaniac

nymphomaniac

Führe mich, halte mich
Ich fühle dich, ich verlass dich nicht

Rammstein, 2009

La natura, così come talvolta la cultura, può portarci ad ignorare i limiti per molti motivi. Solo raramente tali motivi sono patologici, incarnati da morbose manie devianti (siano esse corporali o intellettuali), più spesso sono connessi a predisposizioni, interiormente sentite e/o esteriormente generate, legate alla nostra stessa essenza di individui. Perpetuare lo stato di tensione associato al riconoscimento e all’esperienza del limite, comporta la sospensione mentale e fisica di uno stato di piacere conscio, che si trasforma in estasi espansa. Da cui è facile non solo essere attratti, quanto piuttosto essere dipendenti. Siamo uomini. Animali dunque. Niente di sorprendente. La dilatazione esperienziale resa possibile dalla permanenza nello spazio ideale del confine, però, provocando un’estensione della nostra ricettività in termini generali, oltre a renderci maggiormente sensibili nei confronti di ciò che viviamo, tende, alquanto naturalmente direi, a farci invadere, pur non volendolo, spazi non di nostro dominio. Spazi governati e influenzati da leggi incardinate nella cultura, che sfidano morale, etica, estetica, scienza e a volte, l’esistenza stessa. Si tratta di una catena logica, oltre che necessaria. Quando l’espansione dei nostri sensi finisce con l’ingombrare quelli degli altri, condizionandoli, e nei casi più gravi annientandoli, il piacere appassionato si adombra. E nell’interrogarsi si sterilizza. O rischia di sterilizzarsi. Palesando tutta la dimensione ludica del vivere stesso.

nymphomaniacNymphomaniac non è un film per tutti, ma è un film che tutti – o forse meglio –  tutte, sono in grado di sentire sulla propria pelle. Quel senso di inadeguatezza e disagio che segue la scelta consapevole di anteporsi agli altri, senza riflettere, accanto al godimento conseguentemente inconsapevole, di aver saputo perpetuare un eccesso. Una sensazione che ognuno di noi, in quanto essere umano, è in grado di cogliere sebbene non l’abbia vissuta in termini patologici; termini che conducono, nel caso specifico, la protagonista ad un annullamento totale di tutto ciò che non abbia a che fare con l’esuberanza tipica della lussuria, seconda neanche alla stessa esperienza della maternità, cosa invece, universalmente, meno naturale. L’esposizione di una interiorità travagliata ci è presentata attraverso un meccanismo metaforico che rispecchia il nostro stesso approccio inferenzale all’esperienza. Accostandone ogni livello sensoriale. Mettendoci letteralmente in gabbia. Come esseri umani-animali.

Non è richiesta identificazione per capire. Basta saper cogliere la sofisticata (sebbene debba ammettere non costantemente elegante) associazione dei contrasti manifesti, rimanendo al confine tra gli stessi. Concentrandosi su di loro. Con determinazione. Impegno. E devozione. Perché se Perseveranza è un termine filosoficamente ormai dimenticato che, come ogni termine dimenticato, ha smesso di essere usato avendo perso la sua forza trasmissiva, Lars Von Trier ce lo restituisce in tutta la sua pienezza. E scevro da ogni stigmatizzazione.

Per questo per me merita un grazie.

Per il resto: chapeau!

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