Dubbi kilometrici: scusi per Ramallah?

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Geograficamente i km che separano Gerusalemme da Ramallah, due città chiave dello stato di Israele e quello di Palestina, sono circa 18. Per essere due riferimenti opposti (attualmente, anche se non in radice), direi non molti. Mezz’ora di tragitto in auto et voilà, un muro alle spalle. Per tutti gli anni in cui ho vissuto con i miei genitori (18 anch’essi, neanche a farlo apposta),  erano circa 18 anche i km che mi distanziavano dal mare. Mezz’ora in auto con in mente la liberazione dall’angustia di un piccolo centro cittadino, per abbracciare il mare e perdersi in esso. Mezz’ora. 18 km. Mi è sempre sembrato davvero poco. Come oggettivamente è. Il fatto è che poi però cresci, ti muovi, scopri che la liberazione si ottiene perdendoti in mille altre cose, e non sempre la geografia e gli elementi naturali ti bastano per aprirti, ed ecco che percorrere 18 km in mezz’ora, come mi è capitato qualche giorno fa, per passare da Gerusalemme a Ramallah, anzichè sembrare un movimento spensierato e leggero, può cambiare improvvisamente il senso di un viaggio. Perché gli occhi e il cuore, momentaneamente in cortocircuito, semplicemente ti confondono. E tu non puoi che perderti.

Perderti letteralmente, perchè nessun navigatore satellitare ti indica la via per i Territori occupati e l’unica possibilità che hai per orientarti è affidarti a chi vorrà aiutarti. Perderti cronologicamente, perché al tempo non sempre è concesso di adeguarsi a ciò che noi siamo abituati a definire contemporaneo, e quindi le architetture e i paesaggi che incontri possono confondere momentaneamente il tuo calendario. Perderti umanamente, perchè la rabbia di vedere chi non impara da ciò che è stato e usa sempre gli stessi mezzi per imporsi, ti fa dubitare della legittimità stessa di considerarci noi tutti, così brillanti, intelligenti e sagaci, degni di essere al centro del mondo solo perché essere umani. Perderti infine sensorialmente, perchè l’impossibilità di specchiarti, ti fa dimenticare quanto vali.

Che poi è anche vero che nel perderti trovi conferme. Che l’animo umano, ad esempio, per migliorare ed evolversi, deve essere disposto a farsi educare in modo aperto, flessibile e tollerante, per non permettere al proprio io infantile, non sempre malleabile, di incancrenirsi e rispondere all’orgoglio con l’orgoglio. E trovi residui di bellezza, quella propria di chi ha vergogna di mostrarsi in gabbia, ma non smette di sorridere. Sebbene a modo suo.  E le trovi perchè sei al di fuori, e contemporaneamente di qua e di là da un confine imposto (la cui semplicità di attraversamento si fa beffe del più basso pregiudizio), dove solo talvolta hai l’impressione di incontrare adulti senzienti, più spesso invece ti sembra di essere accanto a bimbi testardi e ruvidi, che rispondono all’ansia col capriccio e che sono immobili di fronte alla paura.  Quella di dare la possibilità a tutti di mettersi alla prova, accettando il rischio che qualcuno poi, imprevedibilmente, si dimostri più bravo a giocare (non sia mai che l’allievo superi il maestro).

Il punto  è che in tutto questo perdere e trovare, alla fine capisci che gli unici che non sanno gestire la confusione e i flussi del dare e ricevere, sono proprio quelli che cercano. E continueranno caparbiamente a cercare: la propria identità, il proprio spazio, il proprio amor proprio. Che però, ahimè, non si trovano cercandoli, ma si costruiscono pensandosi.  Senza perdere d’occhio il calendario però. Che altrimenti si va alla cieca davvero.

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