A lezione di Dothraki. Piccolo viaggio nella terra delle lingue inventate.

GOT

A partire da ottobre 2014, appassionati e fanatici della serie televisiva statunitense HBO Game of Thrones(in italiano Il trono di spade) – trasposizione televisiva del ciclo di romanzi A Song of Ice and Fire (Cronache del ghiaccio e del fuoco) di George R. R. Martin, hanno a disposizione sul sito Living Language a pagamento un vocabolario di 200 parole dothraki, la lingua (inventata) del popolo nomade. Assieme al vocabolario, per i più diligenti, anche un corso on line e un’applicazione per smartphone dedicata a brevi ripassi. L’intera lingua è stata costruita ad hoc per la serie televisiva, a partire da un limitatissimo vocabolario presente nei libri di George Martin (non più di 35/40 parole). I fan dei libri la conoscono come la lingua del marito di Daenerys Targaryen, Khal Drogo e il resto della sua nazione. La costruzione della lingua deriva dall’esigenza, prettamente televisiva, di permettere ai personaggi della serie di esprimersi in maniera fluente. Il lavoro, piuttosto complesso, è stato portato a termine insieme alla Language Creation Society(http://conlang.org/): il risultato finale è un dizionario di circa 2763 parole, creato in gran parte dal linguista David Peterson.

Il dothraki è solo uno degli ultimi esempi in termini temporali, di costruzioni linguistiche per mondi inesistenti. Tra i cosiddetti Costructed languages (in gergo conlangs), sicuramente i più noti e citati sono i Linguaggi della Terra di Mezzo inventati da J.R.R.Tolkien e usati nei suoi libri fantasy ambientati nell’universo immaginario di Arda (The Hobbit, The Lord of the Rings, The Silmarillion), sebbene non manchino casi di esperti esterni ingaggiati appositamente per dare forma linguistica ad uno scenario immaginario creato da altri: basti pensare al linguista Marc Okrand noto per aver inventato il Klingon per la serie Star Trek (e successivamente la lingua di Atlandide per l’omonimo  film Disney).

Dichiarando di aver tratto ispirazione da altri linguaggi da egli stesso inventati per la costruzione del dothraki, alla domanda “Cosa ti è sembrato particolarmente adatto di questi linguaggi per la costruzione del dothraki?” Peterson risponde: “Non ho cercato di selezionare gli elementi da alcune lingue che ho sentito come “appropriati”, o qualcosa del genere. Ho iniziato con il materiale presente ne Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco, e poi ho cercato di costruire la lingua attorno ad esso. Ho cercato di immaginare le circostanze di vita del popolo Dothraki, e questo, combinato con quello che so di lingue e culture pre-industrializzate, ha contribuito a determinare ciò a cui il linguaggio avrebbe dovuto somigliare, quello che il vocabolario sarebbe stato opportuno fosse”. (traduzione mia)

Costruire una lingua da zero, sebbene possa sembrare un esercizio di puro appagamento intellettuale, è in realtà un impegno che coinvolge ogni minimo aspetto della vita e della sua narrazione: dall’assegnazione dei ruoli che la animano al condizionamento del suo andamento. Tra i linguaggi che utilizziamo per relazionarci con gli altri ed esprimerci (volontariamente o no) in mezzo a loro, infatti, la lingua verbale ha da sempre occupato un posto privilegiato. A ragione. La capacità generalizzante della parola possiede un fine pratico – assegnare un solo nome per molti oggetti – ma svolge anche una essenziale funzione razionale ed una ancor primaria di carattere esistenziale. Scrive Herder a questo proposito: “la ragione stessa è e si chiama linguaggio”. Pensare equivale a parlarsi. Le parole rappresentano  “gli involucri entro cui vediamo i concetti” e il linguaggio è “un grande ambito di pensieri divenuti visibili”. La lingua di ogni nazione rappresenta il suo modo di approcciarsi al mondo e ne svela contemporaneamente i limiti. “Ogni nazione parla nel modo in cui pensa, e pensa nel modo in cui parla”, scrive sempre Herder. Quindi se addentrarsi nella sua struttura ha il fascino dell’esplorazione del non detto, inventarla, ha senza dubbio quello proprio del dono dell’onnipotenza. Della creazione, cioè, di un universo interamente simbolico su cui impiantare esperienze.

In questo senso Peterson, che da sempre si agita per dover sentire in Tv alcune delle sue creature linguistiche storpiate dagli attori in scena, e che quindi è parzialmente deluso dai suoi discenti, non potrà che sentirsi un padre orgoglioso alla resa dei conti. Solo nel 2012, infatti, ben 146 bambine sono state battezzate con il nome di Khaleesi (“regina” in dothraki) negli Usa, cosa che ha fatto guadagnare per quell’anno alla Madre dei Draghi il 450° posto nella classifica dei nomi più utilizzati in America. Che la fantasia ai genitori non manchi nella ricerca dell’ispirazione per la gestione degli attributi da offrire alla prole è, infatti, sicuramente cosa nota da sempre, ma mai fino ad ora un nome di fantasia proveniente da un linguaggio inesistente aveva ottenuto così grande successo.

È il potere del simbolo. Che oggi però sembra sostituire, anziché rafforzare l’esistente.

Io ne prendo atto. E allora mi dico: cosa aspettiamo? Chi viene con me a Westeros?

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