My way to India. Diario di un viaggio. Day 1: Calcutta

La prima cosa che ti colpisce sono gli odori. Forti. Fortissimi. Poi, i colori. Le cose più ovvie insomma. Quelle cose che i tuoi sensi non possono far a meno di registrare.

Poi tutto il resto ti mena una sberla in piena faccia. Le contraddizioni. I paradossi. Gli aspetti surreali di una ospitalità che nasconde l’accettazione di una promessa per una via di uscita. Le asprezze di alcuni modi. Nell’ottica del dare per poter prendere di più. Più velocemente possibile. Ciò che colpisce in un modo non scontato, è il temperamento degli abitanti. La loro sfrontatezza nel chiedere a fronte di un dare talvolta non richiesto. Nelle strade, in città, la spiritualità di certo non si respira, ma un grande lato umano dovuto alla loro educazione, quello sì.

Quando ero bambina, diciamo quando frequentavo le elementari, non avevo molte opportunità di viaggiare. L’unica della famiglia che si muoveva  e mi portava con sé, era mia nonna. Quindi i miei unici viaggi, allora, erano collegati ai suoi: monasteri, santuari, chiese. Tutti luoghi religiosi. Quando viaggiavo con lei, tenevo sempre un diario del viaggio. Ogni sera, prima di andare a dormire, scrivevo cosa mi era successo. Senza riflettere troppo. Era una regalo per mia madre, che invece non viaggiava mai e aveva tante ansie e non amava rimanere sola fuori casa. Scrivevo il mio diario per lei e al ritorno glielo leggevo. In realtà glielo donavo. Proprio perché era come se quei resoconti non fossero miei. Eppure non potevo proprio farne a meno. Era il mio modo per invitarla ad uscire, magari con me. Che avrei voluto guidarla.

Non sono tanti i posti che offrono quella spinta al resoconto. Da allora molte cose sono cambiate. Mia madre non ha più bisogno di essere incoraggiata. Eppure talvolta quella sensazione mi torna. Di prendermi del tempo per lasciare fatti alla memoria. Onestamente, pur viaggiando molto, non mi capitava da tanto tempo. E mi è successo qui, in India. Qui dove la vista di giorno è un caos dei sensi e di notte non faccio che strani sogni. Guerre, conflitti a fuoco, fiumi che trasportano cadaveri, rabbia, persone scomparse dalla mia vita tanti anni fa, mio marito che cambia pelle ogni volta che lo guardo. Morte. Ovunque.

Questi posti hanno indubbiamente qualcosa. Simili nella loro estrema diversità. Ho visitato Calcutta prima, poi Bangalore. Povertà e ricchezza, eppure quello stesso spirito. E le stesse contraddizioni. Quel senso etico di cui è pregna la loro educazione eppure la corruzione dilagante. Quella voglia di affermarsi ed affacciarsi al mondo eppure quell’estremo lassismo. Il tempo, che qui ha non ha tempo. Quel senso del passare che non passa. E nessuno che protesta. Lasciar fare. Sempre. Lasciar passare. Sempre.

Diario di viaggio. Day 1

CalcuttaAppena salita sull’aereo a Roma, ho provato disagio. Quegli odori così forti, quei volti così diversi e dallo sguardo così penetrante. Diffidente, poco amabile. Di quelli che ti giudicano così. Senza avvicinarsi troppo.

Il viaggio è stato lungo. E Delhi è stata sicuramente una traversata complicata. Tu che vieni spinta da un punto all’altro dell’aeroporto quasi a casaccio, spesso facendoti sbagliare di proposito  – quel difetto di non dire mai ‘non lo so’ ma risponderti lo stesso una cosa a caso che però magari ti fa perdere mezz’ora. Tu che ti guardi attorno e realizzi che probabilmente sei l’unica donna che viaggia da sola in tutto l’aeroporto. Tu che pensi: sarà sicuramente un viaggio di merda.

Poi però ce la fai a prendere la coincidenza, finalmente dormi un paio d’ore ed atterri a Calcutta.

E quando atterri tutto cambia. Il caos, tutte quelle diversità non ti danno più fastidio. Certo, non ti fanno piacere. Ma non ti irritano più così tanto. D’improvviso. Piuttosto ti rendono pensierosa, questo sì. Ma ti abitui agli odori in un attimo, ti guardi attorno meno smarrita. Non meno dubbiosa forse, ma meno a disagio. Non te lo sai spiegare. Come mai così velocemente, come mai qui. Ma è così.

Calcutta is the city of joy. C’è scritto dappertutto. Eppure le persone non sembrano così sorridenti. Appena uscita dall’aeroporto mi accorgo solo di un gran casino e mi sento pressata dalla gente. Per fortuna incontro subito dei volti sereni. Sono i nostri accompagnatori. Sono qui invitata ad una conferenza internazionale e loro ci saranno attaccati per tutti i giorni dell’evento, per proteggerci dal caos e non farci irritare troppo dalla gente. Il mio accompagnatore personale si chiama Neloy e credo che abbia più o meno la mia età. Come me, ha vissuto a Berlino diversi anni, parla tedesco e vuole tornare in Europa. E’ sposato ed ha una bimba piccola. Nei giorni successivi, non senza qualche imbarazzo mi chiederà un selfie per la moglie. Ed io per l’occasione farò in modo che la mia fede sia bene in vista. Conosco le donne.

Neloy è molto cortese e abbiamo una mentalità affine. Ama cucinare ed il cibo italiano, sembra uno spirito libero, ma subisce le pressioni dei suoi superiori, che gli hanno quasi imposto di trattarci in un certo modo, ed assecondare ogni nostro capriccio anche se non serve. Sebbene capisca coi giorni che questo verrà usato da loro per giustificare tutto ciò che ci chiederanno e a cui non potremo opporci .

Aspettiamo un’altra professoressa, anche lei in aeroporto da qualche parte, e andiamo verso l’hotel. Mettendoci in strada. Una cosa apparentemente scontata e banale, ma che banale non è affatto.

Eh sì. Perché qui in India la strada  è il nemico. 

calcutta strada

Si concentrano lungo l’asfalto il pericolo, il desiderio di prevaricazione e il lato peggiore di ogni essere umano. Il traffico è MORTALE e ti auguri di non dover mai scendere da quell’auto per nessun motivo. Anche solo attraversare sarebbe un problema. E non un problema da poco. Apparentemente non c’è nessuna regola. Chi vuole/deve passare, suona e passa. Se non basta, bussa ai finestrini, scende, sposta, briga, fa. Un bordello. Se ti attacchi al finestrino, rischi un attacco di cuore ogni 2 minuti. Perché è chiaro solo a chi guida che chi ti si è messo di traverso non passerà e che quell’autobus che non si fermerà, in realtà non ti travolgerà.

Ognuno è orientato a guardare davanti a sé, e solo davanti a sé, in vista della meta da raggiungere. Così non importa che ci sia un semaforo o no, un incrocio o no. L’importante è trovare uno spazio giusto per sé lungo la direzione del proprio cammino e farsi spazio quando si può. Quando non si può, si aspetta. Si suona per permettere agli altri di intendere: “Non essere egoista, devo farmi strada anche io. Un piccolo spazio a testa e passiamo tutti”. Ed il resto viene da sé. Nessuno si arrabbia per il traffico. E’ solo una delle tante metafore della vita qui. Una vita trascorsa a superare la sussistenza cercando di rimanere anime pulite.

Nessuno ha l’ambizione di arrivare prima degli altri. Tutti sanno che il traffico è maledetto ed il ritardo è inevitabile. L’importante è arrivare. Farsi spazio. Non troppo e non troppo poco. Esattamente il giusto per passare. Ed arrivare. Quando la cosa si fa totalmente ingestibile, compare la polizia che, senza apparente logica, districa il possibile. Scegliendo a caso chi far passare prima e chi lasciare indietro. Scoprirò di lì a qualche giorno che a queste cose ci si abitua. A vedere le altre auto appiccicate ai propri finestrini. Alle frenate di colpo. Addirittura anche a quel clacson intermittente che tanto mal di testa mi causò quel giorno.

Ma ad altre assurdità della strada, scoprirò di non potermi abituare. Come alle famiglie in motorino. Con caschi improvvisati quando li indossano (gli uomini), ma che non esistono comunque per le donne. I mariti si avventano nel pazzo traffico lasciando i bimbi, senza nessun tipo di protezione, in braccio alle madri. Bimbi che spesso penzolano letteralmente fuori dal motorino, verso la strada. Bambini che spesso non hanno più di due anni e spesso non sono soli. Ecco, a questo è difficile abituarsi. All’ansia di vedere quel precario motorino urtato da un qualche lato e vedere quei bimbi scivolare dalle braccia. Eppure è pieno. Donne a cavalcioni senza nessun serio equilibrio. No, proprio non ce la faccio.

Mentre penso a queste cose, ci perlustrano la macchina. Siamo arrivati. L’albergo in cui si hanno sistemato è un enorme 5 stelle. Uno di quelli che trovi ovunque in ogni punto del globo. Un posto che sembra non appartenere affatto a tutto il resto. Eppure un poso che reclama tutto il diritto/desiderio di farne parte. Magari prima o poi.

Siamo arrivati troppo presto per il check in. Sono le 10:00 ed il check in è previsto per le ore 12:00. Così, mentre i nostri angeli custodi ci lasciano con le istruzioni per il giorno dopo, il nostro uomo a Calcutta, Parimal  – colui che ha lavorare in questi mesi alla squadra – ci accompagna per la colazione. Parimal mi presenta altri ospiti, colleghi con i quali avrei diviso questi giorni. Myrna e Lea dalle Filippine, Vladimyr dall’Ucraina. Sebbene tutti abbiamo dei ruoli simili all’interno delle nostre Accademie/Università, inizialmente dialoghiamo a fatica. Che sebbene uno degli obiettivi dichiarati di questi incontri sia quello di creare una rete anche tra gli invitati, farsi subito gli affari propri non sta bene. Così si parla astrattamente del più e del meno, cogliendo ognuno nella propria memoria gli stereotipi meno controversi sulla Nazione di provenienza dell’altro, per essere cortesi e non rischiare inutili incidenti diplomatici.

“Italiana? Ma che bello! E poi Roma: che splendore di città! Ci tornerei almeno una volta al mese solo per mangiare un piatto di spaghetti fatti bene”. Eccerto.

Così tra un discussione sulla pizza Margherita – bufala sì, bufala no – e una dissertazione sulla vodka – a colazione sì o a colazione no –  e qualche altro luogo comune qua e là, finalmente si fa mezzogiorno. Io ho viaggiato tutta la notte senza praticamente chiudere occhio e non vedo l’ora di stendermi un po’. Mentre a Calcutta è mattina, per me è notte fonda e sono a pezzi. In più ho proprio bisogno di una doccia.

Ma.

Ma Parimal ha per me altri piani. Poiché ripartirò immediatamente dopo la conferenza, ha organizzato una piccola gita in città, con visita del Parco annessa. Il pomeriggio è praticamente stabilito: dalle 13:00 alle 19:00 quando potremo cenare.

E allora niente. Aspetto che mi assegnino la camera, il tempo di lasciare le cose, sciacquarmi un attimo il viso e sono di nuovo giù. Perché ti hanno detto di essere giù alle 12e30 e tu sei puntuale – un difetto che proprio non riesci a perdere! Ma, tanto per cambiare,  sei l’unica ad essere giù e mentre pensi solo a quanto sarebbe stato bello fare una doccia, aspetti.

movimento testa india Dopo circa mezz’ora di attesa in cui non si vede nessuno, chiedo a Parimal se per caso non abbia capito male. Lui per tutta risposta ciondola la testa di qua e di là disegnando una specie di 8 con lo sguardo, che interpreto come una specie di: “E io che ne so?” Però contemporaneamente spende parole molto gentili verso di me, dicendo che avevo capito bene e stavano solo aspettando gli altri, che in India nessuno è mai puntuale. E allora non capisco. Penso che la stanchezza mi stia giocando brutti scherzi.

Visto che ho tempo, a quanto pare, approfitto per chiedere alla reception informazioni su come possa ottenere una Sim indiana per il mio numero aziendale. Qui appuro che il ciondolare è proprio un costume comune. E che quel modo di fare che a noi spiazza – perché assomiglia ad un ‘no’, ma allo stesso tempo anche ad un ‘lasciami stare’ – è semplicemente un loro intercalare. Solo per dire: “Dì pure, ti ascolto”. Di lì ad una settimana vedrò decine e decine di indiani farlo mentre interagiscono con me. Capisco che è normale. Eppure domandarmi se stia dicendo una ca..ata mi viene proprio spontaneo ogni volta. E’ la forza del gesto, che spesso sovrasta la parola.

Finalmente qualcuno inizia ad arrivare e si riempie la macchina per partire. Siamo tutte donne. Insieme a me, anche una ragazza egiziana che insegna in Giordania, e le due filippine. Esperienza del traffico a parte, che scoprirò essere devastante ovunque, il giro turistico mi appare piuttosto deludente. Parimal ci fa lasciare dal driver davanti al Victorian Memorial Hall, sinceramente il punto più interessante della città, ma oltre quello, Parimal ci fa allontanare poco. Al di là di un tripudio di colori e tanti sguardi curiosi, poco mi rimarrà di questo pomeriggio di foto e macchine. Per non parlare dell’esperienza del Parco la sera. Una bolla naturalistica in cui passare due ore senza pensare troppo.

Al rientro ciò che riuscirò a portare con me dalla giornata sarà poco più di un enorme mal di testa. In parte dovuto alla stanchezza sicuramente, ma in parte legato al caos di campanelli e campanelli che gli indiani usano in continuazione per far spostare le persone della strada – Ma una pista ciclabile no? Parimal dice che una volta di avevano anche provato, ma poi l’hanno tolta perché tanto ci passavano lo stesso i pedoni. La logica secondo me è sempre la stessa: se c’è uno spazio ed è sufficiente perché io passi, non importa dove sia, io passo. Pazienza.

Finalmente ho il tempo per fare una doccia prima di scendere al ristorante per la cena. Altro scambio di poco più che formule convenevoli e ci si dà appuntamento per il giorno dopo. Quando tutto avrà inizio. Siamo tutti d’accordo.

Colazione alle 8:15. La navetta per il Convegno parte alle 9:00.

(to be continued)

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