Pratiche della conoscenza in epoca contemporanea. Il ruolo dell’educazione. Secondo me.

conoscenza

“Uso le parole che mi hai insegnato tu.

Se queste non vogliono dire più nulla,

insegnamene altre. O lasciami tacere”.

S.Beckett

Ciò che sempre più spesso, in questo momento di riflessione sulla contemporaneità, sorprende, è la lucidità talvolta raggiunta dagli studi in ambito di scienze sociali in merito al carattere della sua complessità, e la conseguente immobilità di reazione in termini fattivi, quando essa necessita di traduzione in termini pragmatico-costruttivi. Ho riflettuto un po’, cercando di capire: perché?

Un dispositivo per riflettere sul contemporaneo. In “Che cos’è il contemporaneo?”, G.Agamben, interrogandosi sul fare di ogni generazione nei confronti del proprio tempo, cerca di rispondere trovando un modo di declinare il distacco tra presente e passato, tra contemporaneità e storia. Prendendo le mosse dalla visione di Nietzsche secondo cui contemporaneo è l’intempestivo, Agamben afferma che “è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso”, colui che è in grado di tener fisso lo sguardo rivolto al proprio tempo “per percepirne non le luci ma il buio”. Come la neurofisiologia insegna, infatti, percepire il buio non è una deficienza, ma piuttosto un’azione, un atto performativo, che, nel caso in esame, porta a “neutralizzare le luci che provengono dall’epoca per scoprire la sua tenebra”. E, dunque, contemporaneo è colui che non si lascia accecare dalla luce del secolo ed è in grado, invece, di percepire “il buio del suo tempo come qualcosa che lo riguarda e non cessa di interpellarlo”. Accettando un tale assunto, il rapporto con il presente diventa complesso e problematico, ma inevitabilmente fondante. Il presente è “la parte di non-vissuto di ogni vissuto”, per cui l’attenzione a “questo non-vissuto è la vita del contemporaneo. E essere contemporanei significa […] tornare a un presente in cui non siamo mai stati”. Contemporaneo è, in breve, colui che nel dividere e interpolare il tempo “è in grado di trasformarlo e di metterlo in relazione con gli altri tempi, di leggerne in modo inedito la storia, di ‘citarla’ secondo una necessità che non proviene in alcun modo dal suo arbitrio, ma da un’esigenza a cui egli non può non rispondere”. L’essere contemporanei sta, allora, nel saper dare ascolto a quell’ombra e a quell’esigenza interiore.

Ma come si può educare a farlo quando il contemporaneo ha le caratteristiche così peculiari che ha il “nostro” contemporaneo?

Le peculiarità del nostro contemporaneoLaplantine definisce la nostra epoca come un’epoca agitata, un’epoca cioè che “dubita della coerenza del mondo e della pertinenza dei linguaggi incaricati ad esprimere tale coerenza”. In un’epoca del genere, i significati fluttuano sparsi un po’ dappertutto, e l’incomprensibile si traduce in una crisi della conoscenza e una crisi delle rappresentazioni della stessa crisi. Che la conoscenza oggi non possa che essere di carattere frammentario e incompiuto, è per i più evidente, ma la logica conseguenza, e cioè che l’approccio al sapere necessiti dell’invenzione di una molteplicità metodologica per essere affrontato, lo è molto meno, cosa che fa apparire le istituzioni (che della trasmissione del sapere tradizionalmente si occupano), molto spesso inadeguate, rendendo imbarazzante la posizione dei loro stesso discenti, che sarebbero legittimati, ad un certo punto, come Clov in Finale di partita, a ribattere alle critiche sulla loro formazione, nel più naturale dei modi. Dice Clov: “Uso le parole che mi hai insegnato tu. Se queste non vogliono dire più nulla, insegnamene altre. O lasciami tacere”.

È già lo stesso Wittgenstein ad insegnarci che anche quando crediamo di registrare solo dei fatti, in realtà stiamo producendo delle forme, e che la conoscenza, dunque, esiste, solo a partire da un lavoro di messa in relazione, così come la descrizione è un’attività di trasformazione. In base ai linguaggi di rappresentazione che usiamo, la trasformazione assume forme più o meno sostenibili e oggi, quando tali nuovi linguaggi hanno un nome ben definito (= tecnica), la crisi aumenta di volume: diventando, oltre a crisi di conoscenze e di rappresentazione della crisi, anche crisi di relazione (= trasmissione formativa).

Il valore dell’educazione e il problema della moltiplicazione metodologica. Già Quintiliano nella sua Institutio Oratoria, attribuendo un valore fondante alla trasmissione della cultura nella formazione educativa degli allievi, affida agli stessi studenti una parte attiva nel processo formativo, i cui passaggi temporali dovevano essere modulati in funzione della loro reazione soggettiva agli insegnamenti. Lo studente poteva passare da un livello all’altro di approfondimento dello studio, cioè, quando se ne sarebbe sentito capace. In questo senso è semplice capire come la cultura venga individuata in modo dinamico, come il frutto dell’esperienza dell’uomo (gli accidenti della vita che Montaigne chiamava “salti” e “capriole”) e il luogo in cui gli allievi si relazionano l’uno con l’altro, la scuola, come il perno del sapere, che tutto unifica, attribuendogli un senso ulteriore. La varietà delle discipline da lui individuate per l’educazione testimoniano, concretamente, il desiderio di infondere una maturazione del sapere attraverso l’apprendimento di diversi strumenti metodologici. L’arte non è il dispositivo individuato come primario, ma lo è di certo la sua tecnica (letteralmente intesa) che si incastra nel meccanismo della retorica: la regina delle discipline. In tal senso, rimanendo in ambito di connubio di intenzione pedagogica e teorie dell’interpretazione, una soluzione potrebbe essere rappresentata da una possibile applicazione delle intenzioni idealmente prospettate dallo studioso ungherese J.S.Petoefi proprio su modello della Institutio di Quintiliano. Un modello di formazione/conoscenza flessibile a base transdisciplinare con obiettivi costruttivi (ciò che egli chiama Testologia Semiotica) la cui applicazione rende gli studenti il perno stesso del meccanismo trasformativo del sapere trasmesso. La Testologia Semiotica (radice della mia intera formazione accademica) rappresenta una filosofia esistenziale prima ancora di una metodologia del sapere, che invito ad approfondire. Ho impiegato anni per sperimentarne i risvolti e non mi ha mai deluso. La Scuola, da cui lo stesso studioso ungherese proviene (egli inizia la sua attività di ricerca tra i banchi di scuola dei suoi allievi di matematica), non dovrebbe continuare a trascurarla. Perché oggi più che mai essa può rappresentare una risposta fattiva ad una perplessità che condivido, e che ben esprime il già citato Laplantine: “Qui […] si tratta di contribuire a rianimare la realtà, che oggi si trova sotto flebo, e di dare un po’ di fiato alla nostra epoca. La realtà presuppone uno slancio, o quanto meno una vibrazione che ci mantenga in vita, una vibrazione che d’altra parte non può essere isolata dai suoni e dai colori. Da questo rifiuto ad abdicare dipende l’avvenire del pensiero. Credere nella stabilità e nella solidità che pretendono di procurarci quei palloni gonfiati che sono l’identità e la rappresentazione ci distoglie dall’esercizio critico del pensiero e costruisce un handicap per la sensibilità. Ma quando si moltiplicano i punti di vista, le lingue e i linguaggi, quando si cambia prospettiva, quando si procede a una deformazione, a uno smontaggio (cosa che è propria dell’arte, dell’antropologia, della traduzione nei loro processi di sperimentazione), allora l’identità si sente minacciata e la rappresentazione non ha più modo di esistere. Tanto meglio così, si fa tardi e c’è ancora molto da fare”.

Perché è proprio vero. Si fa sempre più tardi. E c’è sempre più da fare.

Articolo apparso già qui, in altra versione: http://www.ahref.eu/it/biblioteca/innovazione-e-societa-della-conoscenza/la-cura-del-senso-pratiche-della-conoscenza-nellaccademia-dellepoca-informazionale/la-costruzione-del-senso-pratiche-della-conoscenza-in-epoca-contemporanea.html

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