Expanded Cinema. Recensione di un saggio profeticamente visionario.

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Nel 2013 esce in italiano, con un ritardo imbarazzante in termini teorici, ma in un momento topico per la discussione dello statuto ontologico del cinema in quanto arte, il testo chiave degli anni ’70 del visionario Gene Youngblood: Expanded Cinema. Il testo, curato da Pier Luigi Capucci e Simonetta Fadda, è stato pubblicato qualche tempo fa dalla casa editrice CLUEB, nella collana Mediaversi di cui Pier Luigi Capucci è lo stesso direttore.

Cosa si intende per Expanded Cinema. Il ‘cinema espanso’ (così viene tradotta la locuzione in italiano) è, letteralmente, il “cinema che esce dallo schermo”, quel modo di concepire la trasmissione audiovisiva, cioè, che coinvolge l’intera esistenza oltre l’esperienza della visione, quale vera e propria espansione di coscienza. Nato all’interno del più ampio movimento europeo delle Expanded Arts, l’Expanded Cinema nasce ufficialmente  nel 1958, quando Kenneth Anger, a Bruxelles, proietta il suo Inauguration of the Pleasure Dome contemporaneamente su tre schermi.  Inizialmente, dunque, esso indica semplicemente il fenomeno in base al quale il cinema si frammenta per ricomporsi in modi nuovi di fruizione, ma con il tempo il concetto amplia la sua portata semantica, abbracciando ogni situazione in cui il cinema supera se stesso in termini tradizionali. Quelle situazioni in cui, oltre i rigidi formalismi di genere, l’arte abbraccia, o tende ad abbracciare, l’intera vita, con l’ambizione di coincidere con essa. Totalmente. Un cinema non da botteghino e di intrattenimento, quindi, ma un cinema come sperimentazione delle potenzialità dei suoi linguaggi oltre il mero aspetto ludico e narrativo (oltre Hollywood per intenderci).

Nell’illustrazione di questo processo, ad avere un ruolo centrale sono la scienza e la tecnologia, i new media e le avanguardie statunitensi degli anni ’60,  gli artisti ibridi di quegli anni (Andy Warhol, Terry Riley, Nam June Paik, Michael Snow, Otto Piene, Aldo Tambellini, John Cage, Wolf Vostell, Allan Kaprow, solo per fare qualche nome),  sono anche le intuizioni di McLuhan, le visioni di Buckminster Fuller, ma sono, soprattutto, le profetiche riflessioni di un uomo che quarant’anni fa era riuscito ad andare oltre le considerazioni tecniche del mezzo per avvertirci di una evoluzione che avrebbe cambiato la nostra stessa esistenza. La sua consapevolezza, in particolare, che ci saremmo dovuti affermare artisti per essere protagonisti di qualsivoglia cambiamento, ma artisti nel senso di essere capaci di sviluppare creativamente un nostro discorso di vita come “cinema personale” (pensiamo all’influenza di tali riflessioni sui movimenti cyberpunk che sarebbero nati di lì a poco, col loro desiderio di cambiare i media dall’interno), e nello stesso tempo responsabili utilizzatori degli strumenti, al di là di ogni passività prefigurata da un dominio della, già allora molto influente, televisione. In questo senso, in un’epoca come questa in cui il cinema vive una dimensione nuova anche grazie all’attenzione che ad esso riservano i recenti studi di neuropsicologia della visione, ma contemporaneamente di crisi ontologica legata all’impossibilità di riconoscere una sua univoca dimensione, un pensiero la cui discussione diventa urgente e non più trascurabile/posticipabile.

Perché è ancora importante parlare di Expanded Cinema oggi.
 Nell’indagare l’evoluzione del lato prettamente artistico/concettuale del cinema, Gene Youngblood utilizza un approccio multidisciplinare, con un’attenzione particolare ai mutamenti nella sfera cognitiva dettati dall’adattamento all’utilizzo di nuove tecnologie per esperire. Molte delle tecnologie che descrive, nuovissime in quegli anni, oggi sono diventate a noi familiari. Talune sembrano addirittura obsolete, dal punto di vista tecnico. Eppure dal punto di vista teorico, dato il loro impiantarsi nei mezzi di comunicazione cambiando il nostro approccio ad essi, sono di là dal poter essere considerate antiquate. Youngblood si lancia in riflessioni futuristiche in un momento in cui, a livello percettivo, a tutti era chiara la distanza rappresentativa tra la realtà e la fiction. I suoi discorsi, incarnatisi nel tempo, hanno generato, imprevedibilmente, forse, una generazione di giovani cineasti del pensiero in cui questa distinzione non solo non è riconoscibile, ma addirittura per molti versi perde di senso. L’allunaggio del ’69, citato dall’autore quale emblema di una innovazione che permetteva contemporaneamente a individui sparsi in tutto il mondo di godere di uno spettacolo la cui realtà oggettiva veniva filtrata dalla televisione, mediaticamente parlando viene totalmente soppiantato dal crollo delle Torri Gemelli nel 2001, evidenziando, ma anche contemporaneamente ribaltando, la nostra abitudine di considerarci cittadini del mondo. L’11 settembre segna la definitiva evaporazione di binomi dal confine netto quali presenza/assenza, realtà/fiction, concreto/astratto, arte/vita, ponendoci di fronte ad uno stato di simulazione perenne, cosa che ci costringe a riabituare il nostro sguardo al riconoscimento di qualche confine.

Scrive Youngblood che, se  l’ambito cerebrale è il ‘luogo’ in cui si trova l’esperienza, il computer espande la nostra stessa intelligenza.  Ora noi possiamo interrogare i figli di questa espansione, per i quali la lettura del testo appena pubblicato in italiano potrebbe, anzi, dovrebbe, rappresentare un terreno di confronto ideale. Che ne è, per esempio, del nostro tempo personale, ora che il cinema, in termini di espansione, si è impossessato dei nostri luoghi? Ed è ancora giusto parlare di cinema? In un momento in cui la rapidità di implementazione delle innovazioni tecnologiche nel tessuto sociale non permette una adeguata elaborazione culturale dei significati da esse stesse generati?  In quest’ottica, la lettura del compendio al testo, composto da un glossario aggiornato, non può che completare il cerchio della riflessione sull’opera. Un’opera necessaria.

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