Dallo scaffale alla nuvola. Archiviazione e creatività oggi

La lecture ha avuto luogo all’interno del workshop interdisciplinare promosso dal Quasar Design University dal titolo: “Umano, sovrumano, postumano. Dispositivi per lo Human Enhancement” (Roma, 19.02/2.03.2018). Obiettivo del workshop è quello di far riflettere gli studenti sul cambiamento, in epoca contemporanea, del luogo dedicato al pensiero e la creatività. In epoca umanistica, tale luogo era fisico e coincideva con il cosiddetto studiolo. Oggi, in un momento in cui il sapere si è completamente smarterializzato, come progettare un luogo deputato a questo scopo?

Immaginare un luogo ideale deputato al pensiero creativo, la sua progettazione, in un’epoca come la nostra, in cui la categoria stessa del pensiero è in discussione, non è facile. Il mio contributo al workshop, quindi, non sarà di carattere fattivo. Non offrirò degli strumenti per risolvere dei dilemmi, ma sarà piuttosto di carattere concettuale, volendo contribuire a stimolarli, alcuni di quei dilemmi. Attraverso un piccolo viaggio fatto di idee, architetture, cinema e televisione, cercherò di mostrare ai nostri designer del futuro alcuni fattori di cambiamento su cui è ormai impossibile non riflettere. Sperando che siano di stimolo al progetto.

Questo viaggio parte dall’inizio. E l’inizio coincide con uno spunto imprescindibile di riflessione quando si parla di ‘pensatoi’, e cioè il famoso studiolo dell’umanista. Un ambiente privato che il nobile intellettuale si ritagliava per coltivare i propri interessi culturali. Elitario, veniva allestito in modo da isolare il nobile dal mondo esterno ed agevolare la propria attività creativa. Lo spazio era abbigliato da oggetti ed orpelli, spesso molto preziosi, in grado di aiutare la stimolazione del pensiero. Sono giunte a noi famose testimonianze architettoniche di questi spazi. Probabilmente il più noto è lo studiolo di Federico di Montefeltro, conte di Urbino, ma altrettanto affascinanti erano anche lo studiolo di Isabella d’Este, o Cosimo de’Medici, e così via.

L’allestimento di uno spazio così concepito, si fonda su almeno tre presupposti. Il primo  è che esiste una separazione netta tra il soggetto creativo/creatore, pensante e l’oggetto depositario della memoria che lo aiuta nel processo creativo. Poiché qualsiasi innovazione, anche la più originale, si fonda su un sapere pregresso che il creativo non può ignorare, all’interno dello studiolo questi strumenti del sapere si trasformano in oggetti da consultare. Libri, disegni, schizzi, prototipi, oggetti preziosi e rari. Di fatto, si tratta di elementi dotati di una propria vita materiale, che hanno un posto all’interno della stanza e che aiutano ad arricchire la competenza  e la conoscenza del proprietario dello spazio, quando decide di interagire con essi. Il secondo è che questo processo di raccolta di oggetti, collezione, acquisizione della informazioni, elaborazione e creazione, avviene in totale solitudine ed isolamento dal mondo esterno. L’artista, il pensatore lascia il mondo fuori dallo studiolo per raccogliersi intimamente nei suoi pensieri. Il terzo, riguarda lo spazio. Ritagliare una stanza all’interno di una proprietà privata per dedicarsi a se stessi e alla propria cultura, indica la chiara necessità di uno spazio fisico accogliente per esprimersi al meglio.

Questi presupposti allo studio sono propri di un lungo periodo. Se volessimo sintetizzare queste caratteristiche in un’unica figura, magari a noi più vicina nel tempo e più popolare, indicherei in Sherlock Holmes, un degno erede di questo modello di pensatore. Una figura letteraria, certo, ma costruita secondo un modello classico del pensatore del passato, sebbene particolarmente dotato, non c’è che dire. Sherlock è un consulente investigativo con una intelligenza acuta. Attento ad ogni dettaglio visivo e visibile, raccoglie tracce di informazioni che le persone dotate di normale intelligenza trascurano e poi genera la propria idea. Lo fa nella solitudine del suo appartamento al famoso 221B di Backer Street usando la sua mente anche come metafora dello studiolo. Vediamo in questa clip, tratta dalla serie televisiva britannica Sherlock un riferimento di Sherlock al proprio palazzo mentale, usato per la risoluzione del caso del mastino di Baskervile.

Chi non ha mai sognato, almeno una volta di essere veloce e geniale come Sherlock?

Peccato che i tempi siano cambiati ed ormai da molto tempo il fascino dell’investigatore solitario viva solo nella finzione letteraria. Sì, perché nella realtà sono successe molte cose che hanno messo in crisi i presupposti dello studiolo a cui abbiamo accennato in apertura. Intanto, l’avvento del digitale e la nascita di supporti diversi dall’oggetto fisico per la memorizzazione dei dati hanno definitivamente messo alla prova il primo dei presupposti individuati. L’archivio digitale rende evanescente la forma solida dei vecchi supporti di memoria (libri, album fotografici, ecc.). L’oggetto a cui releghiamo la conservazione del sapere non si vede più. Non solo, esso non esiste proprio finché non siamo noi a consultarlo e a dargli vita. Così la netta distinzione tra soggetto che crea e pensa ed oggetto depositario della memoria, si annulla.

L’elenco di file di testo ed immagini, video che abbiamo archiviato nelle nostre memorie digitali aspettano qualcuno che gli dia un’anima. Siamo solo noi che, mentre li cerchiamo e li selezioniamo, li apriamo davanti ai nostri occhi, diamo loro forma. Una forma che non è secondaria al momento in cui decidiamo di dare loro la vita. Mentre il supporto fisico è davanti ai nostri occhi a prescindere dal momento in cui noi lo useremo, infatti, il file archiviato in digitale prende vita solo se lo consultiamo. E non prende una vita a caso. Ma quella che esattamente noi decidiamo di dargli in quel momento. Certo, anche quando sfoglio un libro, la variabile del tempo ha un valore. Di certo un testo ci parla in modo diverso in momenti diversi, ma lo spazio che occupa nel nostro scaffale non cambierà poi di molto nel tempo. Tale considerazione ci porta ad un’altra conseguenza. Non solo si perde la distinzione tra soggetto e oggetto del pensiero, ma l’oggetto stesso perde il suo statuto per trasformarsi in un evento, in quanto tale unico ed ancorato più al tempo che allo spazio.

La collezione delle nostre memorie pertanto diventa flessibile e perde definitivamente la propria linearità. Non c’è ordine nella rievocazione delle memorie. Essendo ancorata alle nostre pulsione ed esigenze del momento, la rievocazione diventa imprevedibile. Le informazioni conservate nei supporti si trasformano in tracce da rincorrere e da individuare.

Che l’archiviazione del sapere e la propria acquisizione possano non essere lineari, in realtà non è un concetto nuovo. Vorrei fare due esempi di architetture utopistiche del passato che lo dimostrano.

Il primo esempio è il Teatro della Memoria dell’umanista Giulio Camillo Delmino.

L’idea è quella di progettare un teatro destinato a recare l’impronta mnemonica di tutta la conoscenza universale, codificata attraverso schemi di memoria associativa. Il teatro, che in realtà ha l’aspetto di un grande Anfiteatro, ispirato al De Architectura di Vitruvio, era diviso in sette gradi, intersecato da sette corsie. L’edificio, quindi, era suddiviso in 49 caselle ad ognuna delle quali era associata  una figura simbolica dal mito o la cabala. Gli studiosi erano degli spettatori che, muovendosi all’interno dell’architettura, avrebbero avuto accesso a tutto lo scibile umano.

Il secondo esempio è successivo ed è un progetto architettonico, anche questo mai realizzato, redatto nel 1784 dall’architetto Etienne-Louis Boullée, in onore di Isaac Newton.

Il Cenotafio di Newton era costituito da una immensa sfera cava alta oltre 150 metri adagiata su un terrazzamento che doveva sostenere l’emisfero inferiore e assorbire la spinta della metà superiore. All’esterno erano previsti tre alti basamenti su cui erano collocati altrettanti anelli concentrici di cipressi, come i mausolei romani. Lo scopo dell’architetto era quello di riprodurre l’immensità dell’universo e suscitare sgomento. La ciclopica cavità all’interno del cenotafio, occupata dal sarcofago commemorativo, avrebbe offerto visioni cosmiche diverse a seconda del momento della giornata. Di giorno, la sfera avrebbe mimato la volta celeste con tutte le sue costellazioni ottenute dal filtraggio della luce attraverso apposite fessure sulle calotte. Di notte, il complesso avrebbe fornito effetti diurni, ricavati con l’accensione di un enorme globo a forma di sfera armillare che, sospeso al centro della cavità, avrebbe illuminato l’intera struttura.Le spoglie di Newton erano in una struttura che ricreava in miniatura l’universo, le cui dinamiche vennero da lui stesso scoperte grazie alle famose leggi di gravitazione universale.

Entrambi questi esempi ci mostrano come l’idea di assumere conoscenza attraverso dei metodi alternativi e non lineari non fosse nuova, eppure l’ancoraggio allo spazio fisico permane come vincolo determinante. Un vincolo che impedisce alla conoscenza di autogenerarsi, come invece avviene con i supporti digitali che sviluppano una conoscenza negli interstizi della nostra visione, proprio in quegli spazi che non vediamo. Non è un caso che si parli, a questo proposito di Inconscio tecnologico. Il termine, coniato in questa forma da Franco Vaccari nel ’79  – cfr. Fotografia e inconscio tecnologico” – anticipato dal concetto di inconscio ottico individuato da W.Benjamin nel suo testo celeberrimo “L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica”, indica la capacità della tecnologia di appropriarsi di zone del sapere e archiviarle senza che noi ne siamo coscienti.

Un esempio classico che si propone di solito per spiegare cosa si intenda per inconscio tecnologico è il film di Michelangelo Antonioni del ’66 “Blow-up”. Thomas, egocentrico ed inquieto fotografo londinese, scatta delle foto a due amanti in un parco deserto. La donna se ne accorge e lo rincorre per avere i negativi. Lo raggiunge nel suo studio ed è disposta a concedersi pur di riaverli. Insospettito, Thomas sviluppa le foto, le stampa e le ingrandisce – con la tecnica del blow-up appunto – e scopre tra la vegetazione una mano con una pistola. Torna nel parco e vede il cadavere dell’uomo che era con la donna quando lui ha scattato le foto. Torna nello studio e scopre che stampe e negativi sono stati rubati.

La macchina fotografica aveva catturato dei dettagli che erano sfuggiti al fotografo, concentrato ad osservare un’altra parte della scena. Quei dettagli diventano significativi solo dopo che vengono sottoposti ad analisi e si incastrano all’interno di un puzzle che ha al centro una scena del delitto. Quante volte ci sarà capitata la stessa esperienza? Riguardare un video o una foto ed accorgerci di dettagli che non avevamo notato e che improvvisamente diventano significativi. Ex-amanti che sbucano dove non avremmo voluto, tag che ci vedono coinvolti in situazioni che avevamo dimenticato. Certo, dobbiamo ammettere che la potenza dei nuovi supporti di memoria, fa una certa differenza, cos’ come il processo di archiviazione adottato. Vorrei sottoporre alla vostra attenzione, proprio in merito a questo, due esempi che mi sembrano particolarmente significativi. Si tratta di scene tratte da un ipotetico futuro prossimo e che ci vede protagonisti di una immersione nella memoria più coinvolgente.

Il primo esempio ce lo offre la serie britannica Black Mirror nel 2011. Nel terzo episodio della prima stagione intitolato “The Entire History of You – Ricordi pericolosi”, ci viene presentata una realtà in cui ai bambini sin dalla nascita viene impiantato un Grain dietro l’occhio che registra tutto ciò che si fa e a cui noi possiamo accedere sotto forma di video. In questa clip il protagonista ha appena sostenuto un colloquio di lavoro e nel taxi che lo riaccompagna all’aeroporto decide di rivedere le parti salienti, zoomando sui propri potenziali datori di lavoro per carpire dei segnali idonei a decifrare il successo o meno del colloquio. Elementi che erano proprio davanti ai propri occhi pochi minuti prima, ma che, concentrato su se stesso, chiaramente non aveva avuto il tempo di fissare.

Il secondo esempio ci viene offerto da una serie, sempre britannica, più recente. Si tratta di Electric Dreams, distribuita in Italia da Amazon Prime a partire da settembre del 2017, ispirata ai libri del visionario Philip Dick. L’episodio che vi sto per mostrare è il quinto della prima stagione. Si tratta di un episodio ambientato in un futuro non troppo remoto in cui la protagonista è Sarah, una poliziotta lesbica sposata con Katie. A causa di un massacro a cui ha assistito e in cui ha perso diversi colleghi ed amici, Sarah è scioccata e non riesce ad andare avanti con la sua vita serenamente senza pensarci. La moglie decide, pertanto, di regalarle una vacanza speciale: una vacanza mentale, da se stessa. Grazie ad un dispositivo con il potere di basarsi sul proprio subconscio, Sarah non dovrà fare altro che chiudere gli occhi per vivere una nuova vita basata sui suoi desideri più nascosti.

Portato agli estremi, quindi, il concetto di inconscio tecnologico, connesso con un cambiamento nel processo di memorizzazione del sapere, ci porta dritti a ragionare sul fatto che la novità più interessante del digitale è legata al fatto che, contrariamente al supporto fisico con una vita propria, la mancanza di vita propria di tali supporti, ne aumenta esponenzialmente le possibilità. Non solo questi nuovi supporti di memoria vivono solo in funzione di chi li anima, ma nel mentre, sviluppano un sapere a nostra insaputa, con cui prima o poi dobbiamo fare i conti. E se questo è vero quando a doverci fare i conti siamo solo noi come singolo, figuriamoci cosa succede quando anche questa caratteristica dell’individualità viene meno. Cosa che ormai è realtà da quasi vent’anni. Grazie ai social.

Ancora due esempi che lo evidenziano, in ambito artistico. Il primo è un progetto del 2014 di Lev Manovich dal titolo ”The exceptional and the everyday: 144 hours in Kiev”. Si tratta del primo progetto che analizza l’uso di Instagram durante una rivolta sociale. Grazie all’esplorazione di 13208 immagini condivise da 6165 persone nella zona centrale di Kiev durante la rivoluzione ucraina del 2014 (17-22 febbraio), vediamo che, a prescindere dalla volontà dei singoli utenti che hanno postato le foto, l’insieme delle loro proiezioni, rappresenta di per sé un sapere. Un sapere che ci restituisce la sensibilità di un intero popolo in ore difficili e complicate per il futuro stesso del proprio Paese. In cui convivono selfie in bagno – tanti – con gattini – non pochi – e immagini strazianti di dolore.

Il secondo è un progetto, mai realizzato perché mai finanziato, di un giovane studente di Interaction Design danese, Philipp Schmitt che nel 2015 costruisce un prototipo di Camera Restricta. Si tratta del progetto di una nuova fotocamera che si localizza tramite GPS e cerca on line foto geo-taggate nelle vicinanza. Se individua che troppe foto sono state prese da quella posizione, semplicemente blocca il click e ci costringe a spostarci per fare la foto da una angolazione più originale.

Queste considerazioni ci portano ancora oltre, dritti verso una ulteriore conseguenza di questo processo. Non solo la produzione del sapere non è più individuale, ma si abbatte totalmente la barriere tra privato e pubblico. Ancora uno spunto  dalla tv per capire meglio. MrRobot è una serie americana che riflette proprio su questa dimensione. Certo, il protagonista è un sociopatico hacker che si erge a giustiziere informativo, ma sappiamo tutti che non serve essere così grandi esperti per scoprire nuove identità delle persone che ci circondano (e che spesso non sono neanche consapevoli del fatto che circolino).

Marshall McLuhan aveva profetizzato tutto questo moltissimi anni prima dell’avvento di internet. Nell’epoca dell’informazione istantanea, tutta l’umanità è sulla nostra pelle. E si sa, la pelle non si può togliere. Se non ci piacciono le cicatrici che il mondo ci ha procurato possiamo coprirle in qualche modo, possiamo grattarci quando le allergie ci infastidiscono, ma ci dobbiamo convivere. Ogni giorno allo specchio.

Dunque ricapitolando.

Spazio fisico, mentale e virtuale, oggi, coincidono. Soggetto ed oggetto si fondono rendendo inutile anche una distinzione tra privato e pubblico, individuale e collettivo. L’isolamento per pensare non ha più senso. Le tecnologie sviluppano un sapere autonomamente cosa che rende sempre l’imprevedibilità sempre più difficile.

Allora. Esiste un luogo che può aiutarci a preservare la nostra intelligenza creativa? Ecco la domanda per i progettisti del futuro. E se non è il periodo dell’umanesimo il nostro punto di riferimento, perché abbiamo visto che tutti i propri capisaldi si sono ribaltati, da cosa ci dobbiamo far ispirare? Sì, perché se ci pensiamo bene, la distinzione tra soggetto e oggetto, pubblico e privato, individuale e collettivo sono invenzioni piuttosto moderne. Non siamo nati con questi valori. Tali distinzioni sono invenzioni figlie dell’invenzione madre di tutte le invenzioni: la scrittura. Grazie alla scrittura, l’uomo ha relegato a luoghi fuori da sé la memoria del passato. Nella cultura orale questo non esisteva. Gli uomini si portavano addosso il loro sapere e quello delle generazioni future. Dunque non è che è qui che dobbiamo guardare? Non è che stiamo tornando indietro? Culturalmente intendo. E come affrontare questo salto nel passato?Dovremo davvero abbandonare ogni riferimento con un luogo fisico dedito al pensiero?

Vi lascio con una provocazione artistica, la Future Library ideata dall’artista scozzese Katie Paterson.

Grazie alla collaborazione con la più grande biblioteca norvegese, è stata piantata una intera foresta vicino ad Oslo che fornirà carta per la pubblicazione di una serie di libri in 100 anni. Il progetto è partito nel 2014 e terminerà nel 2114. Ogni anno uno scrittore, scelto da un comitato che si rinnova ogni 10 anni, viene scelto per scrivere un libro che farà parte della biblioteca del futuro. Il primo testo depositato è stato scritto da Margaret Atwood. Un testo di cui lei ignorerà la ricezione visto che difficilmente sarà ancora con noi fra 100 anni. E così per tutti gli altri. I lettori della biblioteca del futuro non esistono ancora, nasceranno fra molti anni, così come molti degli scrittori che popoleranno l’archivio.

Cosa vuol dire questo? Che il ruolo dell’archivio è quello ancora di creare contenuto, ma non in termini di memoria, bensì come fabulazione e processo narrativo imprevedibile. Perché che siamo gli unici animali che definiscono la propria umanità grazie al racconto di se stessi in cui credono, questo nessuna epoca lo ha ancora messo in discussione.

E allora a voi. Fateci vedere come sarà questo pensatoio affabulatorio del domani.

Io sono già curiosa.

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